Major Taylor (Collection Jules Beau. Photographie sportive, via Wikimedia Commons)

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Major Taylor pedalò contro le leggi razziali

Marco Pastonesi

Due libri, uno di Marco Ballestracci l'altro di Alberto Molinari, raccontano il primo fuoriclasse di ciclismo afroamericano

Era nato per la bici. Prima la domò, poi la conquistò. Fra acrobazie e virtuosismi, con disinvoltura ed eleganza, di forza e velocità. Soprattutto velocità. Piegandosi sul manubrio, incassando la testa, frullando i pedali. Rhythm’n’bike. Musica ciclistica. Marshall Walter Taylor, il primo fuoriclasse di ciclismo afroamericano, il primo campione americano e poi mondiale di ciclismo nero. L’antenato di quell’Ali Neffati tunisino, il primo nero a partecipare al Tour de France, (nel 1913, ma si ritirò alla quarta tappa), di quel Marcel Molinès algerino, il primo nero a vincere una tappa al Tour de France (nel 1950), e di quel Biniam Girmay, eritreo, il pimo nero a conquistare una classica del WorldTour (la Gand-Wevelgem nel 2022). Taylor detto Major, maggiore, in senso militare, perché la sua prima divisa non era una maglia di lana elasticizzata ma un’uniforme da soldato nordamericano. Anno di nascita 1878, figlio di schiavi, tre fratelli e quattro sorelle, fattoria a Indianapolis, Major conobbe la bici grazie all’intercessione di una famiglia di bianchi che si era presa cura di lui, cominciò a lavorare sulla bici distribuendo giornali poi esibendosi davanti al negozio di un ciclista, cominciò a correre e a vincere per l’intuizione del proprietario di quella bottega.

 

I suoi più forti avversari non erano i corridori bianchi, ma le leggi razziali. Vietato iscriversi, vietato partecipare, vietato gareggiare. Ci riuscì solo per intercessioni di bianchi illuminati, per forza di gambe naturale, per dono di talento speciale. Fra minacce e boicottaggi, contro coalizioni e commissioni, con diffidenze e sospetti, ma anche incoraggiato, applaudito, ammirato. Divenne la Meteora Nera, fu il Diamante Nero, si trasformò nel Fulmine d’Ebano. Debuttò in pista nella Sei Giorni al Madison Square Garden di New York, si specializzò nelle prove di velocità, sfuggì ad agguati e provocazioni, si ribellò a inganni e segregazioni, si laureò campione del mondo nel 1899, non aveva neppure 21 anni, stella strapagata di un circo a due ruote che promuoveva la bici come il mezzo del futuro presente. Poi le tournée nei velodromi europei e oceanici, le sfide al Parco dei Principi di Parigi e al Velodromo milanese di via Argelati, i match a base di surplace e progressioni, codate e sgomitate. Come scritto sulla Gazzetta dello Sport, Taylor si rivelò come “la più alta espressione della potenzialità muscolare della razza di colore asservita alla macchina velocipedistica”.

  

Prima di Taylor, un solo nero era stato capace (ed era stato autorizzato) di diventare campione del mondo: il pugile canadese George Dixon, categoria gallo, anno 1890. Ma la color line, la differenziazione per pelle e razza, fu più crudele nel ciclismo. Perché il ciclismo era disciplina tecnica ritenuta esclusiva per ricchi e aristocratici, dunque per bianchi. Taylor, per farsi strada anche su pista, dovette lottare più di Jack Johnson e Cassius Clay sul ring, più di Arthur Ashe sui campi da tennis, più di John Carlos e Tommy Smith sui campi di atletica.

  

Il regno di Taylor durò una decina di anni. Poi il declino, rapido, per consunzione, esaurimento, sfinimento, poi il tramonto, travagliato, doloroso, malinconico. Aveva 32 anni, quando da maggiore divenne maggiorenne, scese dalla bici ed entrò in un’altra vita, molto più dura, più lenta, più nera. Amicizie sbagliate, fallimenti commerciali, iniziative cieche. Una prima volta si raddrizzò grazie a una colletta cittadina, la seconda volta tentò scrivendo la propria biografia e cercando di venderla personalmente, la terza volta rimase a terra. Abbandonato da moglie e figlia, continuò a scendere sempre più in basso, finché se ne andò a Chicago, tra dormitori e ponti, strade, crocicchi. Nel 1932, a 53 anni, morì povero in un reparto ospedaliero per poveri e dimenticato tanto che, a parte il Chicago Defender, nessun giornale americano si degnò di dare la notizia della sua morte.

   

Due libri su Major Taylor sono stati pubblicati adesso, contemporaneamente, in Italia. Alberto Molinari (Major Taylor – il Negro Volante, Ediciclo, 128 pagine, 14,50 euro, con la prefazione di Stefano Pivato) ne ha fatto un’opera storica, scavando negli archivi, risalendo a quotidiani e periodici anche italiani, attingendo all’autobiografia e agli album dei ritagli. “Le qualità dimostrate da Taylor sulle piste suscitarono la curiosità anche degli ambienti medico-sportivi. Un’équipe dell’Accademia di Scienze di Bordeaux lo sottopose a una serie di indagini antropometriche, radiologiche e cardiache, alla ricerca di un motivo ‘razziale’ delle sue vittorie”.

 

Marco Ballestracci (Black Boy Fly, alvento-Mulatero, 208 pagine, 17 euro) ha scelto di attingere alle stesse fonti e poi virarle in un romanzo, che ha la musicalità di una colonna sonora ritmata su blues e gospel, e le immagini bianche e nere, anche hard boiled, di un docufilm. “Il pubblico esplose in un’acclamazione che pareva un ruggito. C’era chi esultava e chi malediceva, chi si teneva la testa e chi si strofinava gli occhi dicendo: ‘Sono dieci anni che vedo le corse, ma uno sprint così non l’ho mai visto’. C’era chi strappava stizzosamente la ricevuta della scommessa e chi, esultante, l’agitava in aria”.

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