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Il Foglio sportivo

Pozzecco allena strano. Intervista al ct della Nazionale di basket

Umberto Zapelloni

Gli Azzurri giocano contro la Georgia per la qualificazione ai Mondiali e giovedì 1 settembre iniziano gli Europei di pallacanestro. “I giocatori sono come dei figli. Li abbraccio perché so i loro sacrifici. Abbiamo la responsabilità di far innamorare la gente del nostro sport”

Chi pensa che Gianmarco Pozzecco non sia un allenatore dovrebbe ascoltare i suoi giocatori e poi sedersi un’ora di fronte a lui. Allora capirebbe di avere ragione. Perché il nuovo ct della nazionale azzurra di basket davvero non è un allenatore. È qualcosa di più. Un amico, un padre, un uomo innamorato pazzo del basket che alla soglia dei 50 anni sta vivendo un’esperienza che mai avrebbe sognato di vivere quando da giocatore si tingeva i capelli per festeggiare uno scudetto e da allenatore di club si strappava la camicia come l’incredibile Hulk.

 

Quel Pozzecco non c’è più. “Esistono due Pozzecco, uno prima di Tanya e l’altro dopo Tanya”, che è la giovane moglie spagnola sposata a Formentera. “Dieci anni con lei mi hanno cambiato la vita e non solo perché sono diventato un pantofolaio. Tanya che è ana-sportiva, ma si dirà poi così per dire che di sport non sa proprio nulla, mi dà dei consigli preziosissimi. L’altro giorno mi ha detto: ‘Ma lo sai quanti sacrifici stanno facendo Nik (Melli) e Gigi (Datome) per venire in Nazionale dopo una stagione così lunga e dura?’. Parla di loro perché li ha conosciuti a Milano, ma vale per tutti. I miei giocatori devono essere orgogliosi di quello che stanno facendo per vestire la maglia azzurra”.

 

“Alleno in un modo anomalo, strano. Parto da un punto di partenza completamente diverso dagli altri. A me non piace comandare. Esigere che i giocatori facciano qualcosa è maledettamente meno efficace che vederli fare quella cosa perché hanno capito che è quella giusta. Come dice lo psicanalista Recalcati, che non è Charlie, ma Massimo, la cosa più complicata per un padre è far capire a un figlio qual è il bene e qual è il male. Ai miei giocatori voglio far capire le scelte che devono fare. La mia filosofia è quella di cercare di far bene le nostre cose più che adattarci agli avversari. Voglio una squadra che abbia una sua identità precisa. Non mi piace far pensare tantissimo un giocatore agli schemi perché così perderebbe aggressività e gioia di giocare”.

 

Pozzecco racconta la sua filosofia di gioco che è un po’ anche una filosofia di vita. Il ragazzo che ha vissuto per buttare una palla nel canestro sta per tagliare il traguardo dei 50 anni (“Niente feste, l’ultima l’ho fatta per i 40 anni. Adesso spero di cominciare presto a contare gli anni dei miei figli e non più i miei”) e ha addosso una responsabilità enorme. Gianni Petrucci, con una delle sue scelte di cuore e un po’ anche di pancia, gli ha affidato la Nazionale che stasera gioca a Brescia con la Georgia per le qualificazioni ai Mondiali e dalla prossima settimana a Milano sarà impegnata negli Europei. “Noi italiani facciamo cose grandi se partiamo da sfavoriti. Ma io ragiono in modo diverso: se sei underdog vuol dire che sei scarso. Io preferisco essere più bravo. Se sei sfavorito e perdi, avrai l’animo in pace, ma comunque avrai perso. E io preferisco vincere. Io adoro i miei giocatori e non potrei mai pensare che i miei figli sono più brutti o più scarsi degli altri. Non li cambierei con nessun’altra squadra. Voglio che giochino la loro miglior pallacanestro e comunque ci sono squadre fortissime, Francia, Serbia, Grecia. Non c’è mai stato un Europeo di questo livello: ci sono 42 giocatori Nba e due come Giannis e Doncic che sono stati Mvp del campionato. Come si ferma Antetokounmpo senza un pivot della sua stazza? Semplice non lo si ferma, ma cerchi di vincere la partita in un altro modo. Non lo fermano nella Nba, figuraci se ci riesco io con la mia testolina”.

 

Da giocatore ad allenatore. Nel basket non capita spesso come nel calcio. “La pallacanestro è un più schematica del calcio, è quasi più simile agli scacchi. Rispetto al calcio è più legata agli schemi, al tatticismo. La parte analitica, quella che chi non ha giocato ha sviluppato di più, è consistente. Però se guardi alla Nba ci sono molti più ex giocatori che si siedono in panchina. Non credo sia meglio l’uno o l’altro. La differenza è che l’ex giocatore non può fare la gavetta altrimenti incomincerebbe ad allenare a 80 anni”. Il Poz è arrivato alla Nazionale con pochi anni da capo allenatore alle spalle, ma non si preoccupa. Respinge le perplessità: “Mi accusano di non avere esperienza. La verità è che la mia esperienza me la sono fatta giocando, la mia gavetta l’ho fatta con tanti chilometri in campo. Anche perché certe decisioni le prendi anche da giocatore soprattutto in un ruolo come quello del play che assomiglia molto a quello dell’allenatore. Aver giocato tante volte però diventa uno svantaggio perché vorresti vedere certi giocatori pensare come pensavi tu. E questo è sbagliato. Ed è un errore che chi non ha giocato non può certo fare. E comunque se anche hai allenato un club per 30 anni, allenare la Nazionale è un’altra cosa. Anche loro sarebbero dei novizi come me. Per questo mi sono portato Charlie Recalcati che può darmi il consiglio giusto”.

 

In panchina però sta imparando a soffrire: “Si vive una sofferenza molto più dura come allenatore. A parte Rigaudeau, tutti gli ex giocatori con cui ho parlato la pensano come me. Ma è logico che si soffra di più in panchina. Quando giochi, soprattutto se sei un buon giocatore mediamente sono più le volte in cui giochi bene rispetto a quelle in cui giochi male e quando capita magari la tua squadra la sfanga pure e così esci poche volte sconfitto dal campo. Sono poche le volte in cui ti capita di giocare male e perdere. L’allenatore invece non ha mai la consolazione di aver giocato bene: lui o vince o perde perché difficilmente può capitare di perdere con un allenatore che dice io le ho azzeccate tutte. Da giocatore ti capita di uscire dal campo e pensare oggi sono stato meraviglioso. Quando mai può capitare a un allenatore? L’allenatore può fare la differenza in negativo: può fare dei disastri. Poi può incidere alla lunga, ma è più difficile possa cambiare una singola partita se non in casi eccezionali”. 

 

“Uno degli errori che commette spesso un allenatore è nella scelta dei giocatori. Non avere priorità, cercare di avere il massimo in tutti i ruoli può essere fatale. Devi accettare il fatto che quando costruisci una squadra puoi avere anche delle debolezze. Costruendo una squadra devi rinunciare a qualcosa perché è impossibile non rinunciare a qualcosa. Faccio un esempio: provi a coprire tutti i ruoli con una rosa bella ampia. Va bene, però poi si gioca in cinque e con una rosa ampia crei degli scontenti. Nelle scelte c’è sempre un rovescio della medaglia. Io sono fortunato perché non penso di poter aspirare alla perfezione e neppure la cerco perché la considero utopia, così scendo a compromessi. E spesso un allenatore non lo fa perché la sofferenza che abbiamo in panchina ci induce a non voler vivere le debolezze”. Tra i club e la Nazionale la differenza è soprattutto una: “Una squadra di club la costruisci seguendo le tue idee. In Nazionale devi scegliere tra gli uomini a tua disposizione. Devi avere un’idea tecnica elastica. Io ho sempre giocato con un pivot stile anni Ottanta. E questo pivot oggi in Italia non c’è e devo fare di necessità virtù. La fortuna è che abbiamo Melli che non è il centro dominante per stazza, ma lo è per intelligenza, capacità tattiche e tecniche. È mostruoso, anche se non è il cinque che vorrei nella mia squadra. È uno dei giocatori più forti che abbia mai visto in vita mia. E nell’anno che abbiamo passato insieme a Milano abbiamo costruito un rapporto straordinario: mi fido ciecamente di lui”.

 

Milano significa Ettore Messina. Un anno di fianco a un guru del basket: “Stare a fianco di uno dei tre migliori allenatori del mondo è stato gratificante, un master quotidiano, un continuo apprendere. Ettore per background, carisma, personalità è quel tipo di allenatore che appena entra in palestra automaticamente ottiene disciplina. Io non ho questa caratteristica, io ottengo disciplina responsabilizzando i ragazzi. Alla fine il risultato potrebbe essere lo stesso, ma non lo è perché Ettore è molto più bravo di me. Però sostanzialmente sono due modi diversi di ottenere quello che serve a una squadra, ossia delle regole che vengono rispettate. A me piace pensare che i miei giocatori seguano le regole perché hanno capito che sono efficaci per loro”.

 

Allenatore e amico. Due cose che il Poz riesce a far andare d’accordo. “Ci sono varie forme di amicizia. Io per esempio credo poco all’amicizia padre e figlio: non potrà mai essere quella che nasce tra due coetanei. Non esiste solo l’amicizia tra due ventenni che vanno in discoteca. Io per esempio sono amico di Toto Bulgheroni che ha l’età di mio padre ma ho un rispetto nei suoi confronti che magari per un mio coetaneo vivo diversamente. Amicizia è una parola che ha una gamma variopinta di interpretazioni. Io sono amico dei giocatori nel senso che ho rispetto, considerazione, e grazie al fatto di esser stato uno di loro, non penso che siano viziati e soprattutto egoisti quando il più egoista in campo è sempre l’allenatore. Li abbraccio perché so quanti sacrifici stanno facendo. Che è un po’ quello che facevo io. Li abbraccio perché è come se abbracciassi un po’ me stesso”.

 

La cosa più difficile è scegliere. Dire a qualcuno che il suo viaggio azzurro è finito. “Sono stato messo fuori squadra in carriera tre volte, una alla Fortitudo e due in Nazionale. E per tre volte quella squadra ha poi vinto. Una sofferenza che non auguro a nessuno, ne parlo spesso con il mio amico Bobo Vieri che non riuscì ad andare ai Mondiali poi vinti. Andare dai giocatori e dirgli che devono restare a casa è faticoso, anche perché mi affeziono. So che non condivideranno la mia scelta, ma ho un grande rispetto per loro. E comunque ho la coscienza a posto”.

 

“Porto Paolo Rossi o Pruzzo? Io sono nato con la Nazionale di Bearzot nel cuore. Sono legato ai campioni del mondo del 1982 e la figura di Bearzot mi ha sempre affascinato per come ha protetto alla morte certi suoi giocatori. E proteggere i tuoi giocatori è una cosa bellissima. Come bellissime sono le frasi che hanno detto i suoi giocatori in occasione dell’anniversario di quella vittoria. Per loro è stato come un padre. Mi deridono perché chiamo i miei giocatori i miei figli, la verità è che non c’è cosa più bella. Bearzot ha vinto il Mondiale, ma sarebbe uscito da vincitore anche solo ascoltando quello che i suoi giocatori pensavano di lui”. Ma essere amato non è abbastanza per il Poz: “Il mio obbiettivo oggi è far capire ai ragazzi che vincere con la Nazionale è qualcosa di impagabile. Non sono qui per un fatto economico, non sono qui per migliorare il loro ranking, sono qui per regalarsi e regalarci un’emozione. Abbiamo la responsabilità di far innamorare la gente del nostro sport. A Sassari avevo in squadra il croato Kruslin che era anche un buon tiratore, ma che un giorno mi ha fatto vedere un messaggio su Instagram: ogni volta che giochi un pick and roll, quindici bambini smettono di giocare a pallacanestro. Noi abbiamo il dovere che vedendoci giocare 15 bambini in più comincino a giocare a basket”.

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