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Olive #5

Marko Arnautovic è un illusionista

Giovanni Battistuzzi

Non fosse incappato in Siniša Mihajlović l'attaccante austriaco sarebbe rimasto un esteta del calcio, un giocatore capace di tutto, quindi anche di niente. In questa stagione ha segnato cinque gol in cinque partite e guarda tutti gli altri dall'alto in basso

Ci sono giocatori che hanno un'età indefinita. Ovviamente non quella anagrafica, quella percepita. Ciò accade perché ci sembra che giochino da una vita, perché è da una vita che in un modo o nell'altro entrano nelle cronache sportive, senza però affollarle. È solo l'affollamento che ci permette di tenere sotto controllo lo scorrere del tempo, altrimenti si rischia di perdere le coordinate necessarie per comprendere il sommarsi degli anni ed è facile rimanere vittima di un abbaglio. È da anni che Karim Benzema e Robert Lewandowski segnano, che Luka Modric crea, che Cristiano Ronaldo e Lionel Messi si giocano il primo posto nell'immaginario calcistico collettivo.

Ci sono invece altri giocatori per i quali è più facile di altri cadere in errore, sopravvalutare il tempo trascorso dalla prima volta che li si è visti o sentiti e il presente.

Marko Arnautovic è tra questi, perché Marko Arnautovic è un susseguirsi di abbagli.

Marko Arnautovic è un illusionista, un Houdini del pallone, uno capace di apparire, sparire, strabiliare, arrabbiare, mascherarsi e smascherarsi, e tutto questo senza alcuna soluzione di continuità, perché l'esteta lo sa che il bello è unico e assoluto, che può essere anche questione di un momento soltanto e non ha bisogno di alcuna continuità spazio temporale per provocare piacere. L'attaccante austriaco è un esteta, lo è sempre stato, un giocatore capace di provocare un intenso piacere calcistico a chi, davanti a una partita, coglie il gesto atletico tralasciando il risultato, guarda e basta, senza dover chiedere o dare nulla al tifo per dei colori.

Accade mai questo, in pochissimi casi al massimo. E non accade mai perché il calcio è sport di fegato cuore ossessione, dove il risultato conta più di ogni altra cosa e nulla conta se non una vittoria, un trofeo, a tal punto da offuscare, quasi totalmente, tutto il resto.

 

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Nella sua carriera Marko Arnautovic ha dovuto fare i conti con ciò che conta in campo, ossia con i numeri, le statistiche, che per uno che fa l'attaccante, soprattutto il centravanti, sta in quella cifra che sta accanto alle partite giocate, ossia i gol. Che sono tanti, centoventicinque a oggi, ma che, per uno come, lui sembrano mai abbastanza. Centoventicinque segnati in diciotto anni di professionismo, che è parecchio, una vita calcistica.

Una vita calcistica che Marko Arnautovic gioca e segna, ma mai abbastanza, nonostante la carta d'identità dica trentatré anni. Sono mica più tanti trentatré anni nel calcio moderno. Diciotto stagioni, quindici almeno di dominio pubblico, internazionale, passate su campi più o meno prestigiosi, con addosso maglie più o meno prestigiose; passate a portarsi cucita addosso l'etichetta di gran talento, spesso con il prefisso potenziale.

In Italia Marko Arnautovic ci arrivò nell'estate del 2009, all'Inter, e c'arrivò con il nomignolo di “nuovo Ibra”. Si può mica quantificare quanto siano fuorvianti e avvilenti le associazioni di un giocatore con un altro X, sopratutto quando questa associazione viene per brevità riassunta in “nuovo X”. Si fanno però, si continuano a fare, anche quando basta un'occhiata per capire che non basta una statura fisica simile e una capacità di accarezzare e calciare il pallone affine, per rivedere in un altro la carriera di un campione.

Marko Arnautovic non avrebbe disdegnato trasformarsi in Ibrahimovic, ci mancherebbe altro, c'è un intero mondo di ragazzini a cui piacerebbe avere almeno un decimo del talento dello svedese. Di Ibrahimovic però c'aveva niente, perché l'estetismo dell'austriaco è ben diverso rispetto a quello dello svedese. Quello di Marko Arnautovic puramente danubiano, quindi personalistico e follemente autoreferenziale, senza nessuna contaminazione da socialismo calcistico che pervade la formazione dei calciatori svedesi. Il calcio di Arnautovic è illusione, gusto per l'apparizione estemporanea, quella che ti lascia a bocca aperta con un ohhhhh di puro stupore. È un'apparizione svogliata, di quelle che si fanno per il puro piacere di compiacersi e compiacere, senza il crudele realismo che il calcio impone, la preferenza dell'esigenza sul vizio, perché in qualche modo si deve vincere e la vittoria è il trionfo della razionalità: serve segnare un gol in più, o meglio prenderne uno in meno e ogni azione, almeno alla lunga deve perseguire questo, e solo questo, scopo.

Ha mai vinto niente il Wunderteam, la Nazionale austriaca che incantò gli esteti del calcio negli anni Trenta. Ha mai vinto niente (a parte un'oro olimpico, ma si sa che il valore di un'Olimpiade per il mondo del pallone è decisamente inferiore a quello di qualsiasi altra competizione, chi dice il contrario è un ottimista) la Aranycsapat, la Nazionale ungherese che riscrisse, più che in parte, l'estetica del calcio tra la fine degli anni Quaranta e l'inizio degli anni Cinquanta.

Marko Arnautovic ha vinto il triplete con l'Inter di José Mourinho senza mai giocare, poi ha girato l'Europa (prima di finire in Cina), a scorrazzare per il campo tra giocate di grazia assoluta, gol calati fuori da un cappello, e pause nelle quali, ogni tanto, dava al pubblico l'illusione che voleva, quella della grande giocata fine a se stessa, e proprio per questa entusiasmante. La stessa illusione che ha dato all'Austria quando agli scorsi Europei aveva rischiato di eliminare l'Italia con un gol, poi annullato.

Poteva non cambiare. Poteva essere meravigliosamente incompleto, un non vincente tra tanti, uno amato e detestato allo stesso tempo, spesso nella stessa partita.

Poteva non cambiare, rimanere così. Poi è incappato in Siniša Mihajlović che ha fatto ciò che non è riuscito a nessuno, ossia ripulire Marko Arnautovic dall'estetismo danubiano, incattivirlo, renderlo pratico, funzionale al gol. Marko Arnautovic ne ha fatti cinque in cinque partite con la maglia del Bologna (ne aveva segnati quindici, quattordici in campionato, nella scorsa stagione), per una volta vede tutti dall'alto in basso, come gli capita ogni giorno dal suo metro e novantadue, come non gli era mai riuscito nella classifica dei marcatori.

   


  

Olive è la rubrica di Giovanni Battistuzzi sui (non per forza) protagonisti della Serie A. Nella prima puntata si è parlato di Khvicha Kvaratskhelia, nella seconda di Emil Audero, nella terza di Boulaye Dia, nella quarta di Tommaso Baldanzi.