Il tennis italiano alla ricerca di una nuova “Squadra”
L’Italia ha voglia di Davis, ma Paolo Bertolucci avverte: “Chiamiamolo campionato del mondo”
Sarà il documentario di Domenico Procacci, la riscoperta di Santiago 1976, i tweet estivi e i battibecchi scherzosi di Bertolucci e Panatta, sarà che è bello andare a ripescare gli amarcord di una generazione, Loredana Bertè e Renato Zero, la terra rossa in bianco e nero, il tennis in diretta da Pippo Baudo, la dolcissima vita che un tempo i tennisti potevano permettersi, i racconti di una stagione irripetibile raccontata da un gruppo di ex ventenni a cui “piaceva anche giocare a tennis”, ma a tutta Italia è venuta nostalgia della Davis, e la nostalgia sta alimentando le speranze. Il risultato è che, di riflesso, grazie alla memoria riscoperta e a un presente più florido che mai ci sentiamo di nuovo Una Squadra.
Niente di paragonabile a quella che quarantasei anni fa alzò l’insalatiera, ma comunque un nuovo dream team che segna l’inizio di una nuova epoca. Lo squadrone capitanato da Pietrangeli rappresenta un precedente, l’Italia in cima al mondo del tennis c’è già stata, anche quando al trionfo si è preferita l’indifferenza.
La storia riparte da Bologna; da martedì l’Unipol Arena ospiterà uno dei gironi delle fasi finali della Davis Cup. I ragazzi di Filippo Volandri saranno impegnati mercoledì 14 contro la Croazia finalista nella scorsa edizione, venerdì 16 contro la l’Argentina e domenica 18 contro la Svezia (le partite saranno trasmesse in diretta su Sky Sport Tennis, quelle degli azzurri anche su Rai Due e in streaming su Now). “Quest’anno l’Italia è molto forte, con la Russia fuori dai giochi, è certamente una delle tre nazioni più forti del mondo” dice Paolo Bertolucci che sa come si vince la Davis. “La superficie è congeniale ai nostri giocatori, in più saremo in casa e il pubblico è fondamentale, soprattutto in manifestazioni come questa. Ma chiamarla Davis per me è sbagliato; la Davis storica, quella nata nel 1900 per volere di mister Davis non esiste più dal 2019. Sarà bella ugualmente, ma sarebbe meglio chiamarla con un altro nome, per me sono i Campionati del mondo”. Per Bertolucci e compagni la Davis rappresentava l’evento dell’anno, non una delle tante trasferte prima di Parigi e dopo New York, era l’evento che faceva uscire il tennis fuori dall’anonimato: la compianta Alitalia sponsorizzava i ragazzi della Davis non soltanto il vincitore del Roland Garros. Oggi i giocatori vivono di vita propria, singolaristi all’ennesima potenza, egoriferiti, fanno fatica a uscire dalle loro bolle di solitudine; ed è un buon esempio quello della scuola italiana che vede Umberto Rianna seduto ai box di Matteo Berrettini, Lorenzo Musetti, Lorenzo Sonego, significa che c’è movimento e c’è appunto una squadra.
“Forse l’unica cosa che ci accomuna ai ragazzi di oggi”, continua Bertolucci, “è proprio la maglia azzurra. Nel tennis soltanto una volta all’anno c’è la possibilità di ascoltare il proprio inno, solo una volta si ha a disposizione un capitano e si sente di avere la responsabilità di giocare non solo per te stesso ma per il tuo paese. È una bella sensazione che i tennisti vivono troppo poco”. In Davis si vince e si perde insieme, ed è l’esatto contrario di ciò che si impara stando in campo ovvero che il successo e il fallimento sono una questione privata. “Della Davis io mi ricordo proprio la pelle d’oca che sentivo quando mi rendevo conto che grazie a me, anzi grazie a noi, il pubblico stava facendo il tifo per l’Italia. Ai nostri tempi c’era Mario Berardinelli, che durante i nostri incontri si sedeva in tribuna. Bastava un suo sguardo per aggiustare ciò che fino a quel momento era andato storto. La panchina è un privilegio, avere i propri compagni di fianco, in tutti i sensi, a volte riesce a ribaltare una partita. Non solo dal punto di vista tecnico, ma anche psicologico”.
Jannik Sinner – reduce dai quarti di finale agli Us Open contro Carlos Alcaraz e una sconfitta che ha fatto sparire la nostalgia della rivalità tra Roger Federer e Rafa Nadal convincendo anche i più scettici che il tennis è in buone mani e molte di quelle mani sono made in Italy –, Matteo Berrettini, anche lui ai quarti di finale a New York, Lorenzo Musetti, che quest’anno ha vinto il suo primo titolo Atp 500 in carriera sconfiggendo proprio Carlos Alcaraz, (e, a proposito di Alcaraz, che si sta giocando la prima posizione nel ranking mondiale, non ha mai nascosto che le sue bestie nere nel circuito sono tutte italiane). Sono loro i tre singolaristi convocati da capitan Volandri, mentre per il doppio sono stato chiamati Simone Bolelli e Fabio Fognini al momento decimi nella race che porta alle Atp Finals di Torino. Eccolo il dream team che scenderà in campo a Bologna: giusto provare nostalgia per il passato e per quel 1976 vincente e rivoluzionario, ma ci sono nuovi ricordi da costruire.
Il Foglio sportivo - In corpore sano