Oro vista Parigi
L'Italia della pallavolo è pronta a sfatare la maledizione dell'oro olimpico
Ferdinando De Giorgi si è seduto sulla panchina azzurra con l'obiettivo di preparare il gruppo a Parigi 2024, eppure ha vinto subito l'Europeo e il Mondiale. Merito del suo modo di comunicare e dell'atteggiamento che Giannelli e co. hanno messo in campo
Dopo i quarti di finale contro la Francia, ma anche dopo la semifinale vinta 3-0 contro una Slovenia che aveva già raggiunto il massimo risultato nella sua storia, una voce cinica che ronzava pure nell’orecchio del tifoso più ottimista sosteneva che l’Italia della pallavolo maschile potesse giocare al massimo una bella finale per l’argento contro la Polonia bicampionessa mondiale e padrona di casa. Soprattutto, evidentemente, padrona di casa. Un pensiero legittimo e sensato, considerando che il gruppo azzurro era sostanzialmente all’esordio in una competizione di livello mondiale e consapevole, all’inizio, di partire da un gradino sotto le altre pretendenti dichiarate, specie in questo tipo di partite. Senza dimenticare che la Polonia giocava davanti a 13 mila suoi tifosi per il terzo mondiale di fila.
All’inizio del mondiale si è detto che l’Italia potesse sorprendere, senza però che aspettarsi, perché il reale obiettivo, dichiarato dallo stesso Ferdinando De Giorgi, è Parigi 2024. E che nazionali come la Polonia al contrario sentissero questo tipo di dovere, e di pressione. Invece, dopo 7 partite e 7 vittorie, l’Italia della pallavolo maschile si è laureata campionessa del mondo, 24 anni dopo l’ultima volta, che coincide, casualità, con l’ultima volta che ha giocato una partita per il gradino più alto del podio ad un mondiale, ma all’epoca era tutto diverso. Quella che vinse nel 98 era una delle ultime selezioni della cosiddetta "Generazione dei fenomeni”, la nazionale quasi imbattibile che tra l’89 e il 2000 vinse tre mondiali consecutivi, 5 europei e 8 World league. Di quella nazionale faceva parte anche Ferdinando De Giorgi, che, come Velasco nell’89, non ha fatto in tempo a sedersi sulla panchina azzurra che già la sua Italia aveva conquistato la prima competizione continentale del nuovo ciclo, sempre a Katowice, nemmeno un anno fa. E si è ripetuto col mondiale appena concluso.
L’Italia che ha vinto questo mondiale, invece, è un gruppo nuovo, nonché la squadra con la più bassa età media tra quelle che hanno partecipato, e non è solamente un dato anagrafico. È anche un indicatore dell’atteggiamento che ha pianato la strada verso l’impresa. Una squadra affermata e attesa – una “favorita” – non avrebbe potuto compiere il cammino dell’Italia, non perché le varie Polonia, Francia, Stati Uniti non fossero formazioni in grado di vincere – gli uomini di Nikola Grbić alla fine del primo set della finale non sembravano arginabili, e i 13 mila della Spodek Arena lo hanno fatto notare eccome –, quanto piuttosto perché, a posteriori, possiamo dire che la differenza sostanziale tra gli azzurri e tutti gli altri sestetti di vertice non è stato il valore dei giocatori, né la qualità di gioco, ma la capacità di adattamento e risposta ai momenti della partita.
Gli azzurri dall’inizio di questo mondiale non hanno fatto nient’altro – mica poco – che assorbire e rielaborare tutto ciò che si potesse leggere dai match. Questo ha determinato non solo una crescita costante nel torneo ma anche nelle singole partite. Capacità quest’ultima da aspettarsi da veterani dello sport, non da ragazzi che quando l’Italia vinceva la sua ultima competizione mondiale non erano nemmeno nati o non camminavano ancora. Così, nelle partite da dentro o fuori, è successo che al tie break con la Francia, quando era giusto aspettarsi una lotta punto a punto, non c’è stata partita; che in semifinale contro la Slovenia l’eccessiva prudenza, vista all’inizio del match contro Cuba agli ottavi, scomparisse del tutto, e che in finale a crollare alla distanza siano stati i polacchi, insieme ai decibel del tifo a tinte biancorosse, non capaci tanto quanto gli azzurri di resistere e rispondere ai momenti migliori dell’avversario.
La capacità di farsi trascinare dall’entusiasmo per l’andamento della partita è stata di gran lunga più influente del rischio di abbattersi. In questo, decisivo è stato il modo di comunicare di Fefè De Giorgi, un metodo pacato e paterno che gli ha permesso di avere in campo la miglior versione dei suoi giocatori. È successo proprio in finale. Niente rimproveri, niente “ti spiego dove hai sbagliato”, solo un lucido “i colpi ce li hai, provali” per sradicare il vero Michieletto dalla copia insicura che aveva iniziato il secondo set, quando l’Italia era sotto 1-0. Ma lo stesso vale per Lavia, schiacciatore classe 2000 che ha concluso la finale con numeri da opposto, o Romanò, l’opposto di ruolo classe 1997 portato in nazionale direttamente dall’A2 lo scorso anno, che ha scardinato la Francia ai quarti. Balaso è stato premiato come miglior libero del torneo, ma se si dicesse del mondo non si farebbe sgarro a nessuno, nonostante la sua reticenza a riguardo di fronte ai microfoni Rai; Galassi è stato riconosciuto invece come uno dei due migliori centrali. Siparietto divertente dopo la semifinale per il centrale di Monza: alla domanda dell’inviata Rai che gli chiedeva se fossero consapevoli lui e i suoi compagni dell’impresa compiuta, tornando in una finale mondiale dopo 24 anni, la sua risposta è stata: “Non lo sapevamo nemmeno”. Indicativa della leggerezza che dominava l’ambiente, nessuna pressione. Giannelli è stato premiato come miglior giocatore, e, va da sé, come miglior palleggiatore. Anche qui si può dire del mondo, in attesa di smentite. Un premio dovuto a lui che era il palleggiatore, non solo all’ultima olimpiade a Tokyo con l’eliminazione per mano dell’Argentina ai quarti, ma anche a Rio, quando il Brasile ci batté in finale. E allora aveva 20 anni.
La nazionale italiana è stata uno spettacolo inesorabile. E la finale un’apoteosi della crescita partita dalle sberle prese a Casalecchio di Reno meno di due mesi fa, che però non hanno fatto tanto rumore. È scomparsa la paura di vincere e l’Italia è tornata sul tetto del mondo, per starci. Adesso l’appuntamento è per Parigi, per sfatare la maledizione dell’oro olimpico.