l'altro addio
La verità è che Roger Federer si era già ritirato tre anni fa, a Wimbledon
Oggi è arrivato l'annuncio, ma la carriera del campione svizzero si è chiusa sul campo centrale dell'All England Club contro Djokovic, nel 2019. La sua eredità sta anche in quei due punti (e non solo) che non riuscirà mai più a dimenticare
E quindi si ferma a quota 20, Roger Federer. È una notizia? Può essere che qualcuno ci sperasse ancora nel rientro, in uno slam o almeno un trofeo minore, ma la risposta è no. Roger Federer sa benissimo, lui prima di tutti, anche se forse ha preferito non renderlo esplicito, che la sua carriera si è conclusa il 14 luglio 2019. Su un campo da tennis, davanti a tutti, non tra le righe di un comunicato corredato da un cuore.
Quel giorno di tre estati fa, altra epoca in cui nemmeno ci s'immaginava di riempire gli stadi indossando una mascherina, il pubblico dell'All England Club, il campo centrale di Wimbledon, era tutto per lui. Si era presentato all'appuntamento londinese con la solita vittoria facile di Halle, una specie di risveglio muscolare prima dello slam. E una volta arrivato a Londra aveva macinato vittorie in tre set fino ai quarti di finale. Prima della semifinale con Nadal. L'unico capace, anni prima, di interrompere la sua striscia di 66 partite vinte consecutivamente sull'erba. Anche lì non aveva tremato, quattro set e accesso alla dodicesima finale di un torneo che aveva già vinto otto volte.
Siamo sicuri che occorra completare il lungo elenco delle degenze cui è stato sottoposto Federer nel corso degli anni? Ginocchio, menisco, schiena, ginocchio, solo per fare un rapido recap. Perché quello del 2019 era già un campione gravato dal peso degli acciacchi ma sempre legati a un'età che, anche fosse stato preservato dalla sventura, gli avrebbe comunque concesso poco altro da lì in poi. E quindi il punto di vanto era pur sempre la capacità, con la tecnica e l'esperienza, di sopperire alle lacune di mobilità. In termini un po' brutali: giocare da fermo. Attività impossibile da espletare sulle superfici che non siano l'erba. E infatti lui che sulla terra aveva sempre faticato, dal 2015 in poi ha preso a diradare sempre più le sue apparizioni sulle superficie lente.
Questo per spiegare perché la finale con Djokovic per lui non fosse solo "una finale" ma forse "il finale". Due anni prima, per l'ottavo titolo, aveva sconfitto Cilic. Ma in quella stessa stagione aveva vinto anche l'Australian Open. Non tirava l'aria di smobilitazione che nel 2019 lo aveva portato a iscriversi solamente a otto tornei (vinse, oltre a Halle, anche il Master 1000 di Miami). E allora doveva essere per questo che il pubblico aveva fatto una scelta chiara: dal primo all'ultimo quindici lo incitava, batteva le mani con garbo, ma anche violando la regola del fair-play sbilanciandosi in rumori fragorosi ogni volta che lo svizzero liberava un vincente.
Aveva perso il primo set al tie-break, ma si era subito rifatto con un 6-1. Poi sempre un tie-break lasciato indietro nel terzo set, per vincere il 6-4 il quarto e andare, dopo tre ore di gioco, al quinto set. Quello che avrebbe determinato se nel computo dei major ci sarebbe stato un 21 accanto al suo nome. A un certo punto si mette male. Sul 3-2 per Djokovic, Federer perde il servizio. Ma lo recupera subito dopo con un controbreak. Appare un segnale. Precoce. Perché poi i due seguiteranno a mantenere i propri turni di servizio: 5-5, 6-6, 7-7. E qui accade qualcosa. Con qualche errore di troppo del serbo, Federer si porta 30-40 sul servizio dell'altro. Che sulla palla break serve una prima forte, lui risponde con un back basso, Djokovic attacca sulla parte del dritto e Federer lo passa con un cross stretto incrociato. 8-7 e servizio e possibilità di andare a servire per il torneo.
Le immagini di quei minuti, lette con la consapevolezza di quello che stava per accadere, sono di un'intensità quasi insostenibile. Federer va a sedersi con lo sguardo a terra, poi si rivolge al suo angolo, nel frattempo la moglie Mirka si sta scatenando a forza di pugnetti. 90 secondi che durano un'eternità. Poi batte. Il primo colpo lo sbaglia di almeno un metro e ciononostante chiama la moviola, occhio di falco, sembra nervoso. Torna al servizio, tra la prima e la seconda palla ha un tentennamento, chiede scusa, ma porta a casa il punto. E poi? Sul quindici pari: ace. Sul trenta-quindici: altro ace. Due match point. Le telecamere della regia già inquadrano un gruppuscolo di spettatrici bionde. Alzano l'indice della mano in alto. A indicare: ne manca solo uno, solo uno, solo uno. La moglie Mirka è già quasi un bagno di lacrime. Sul quaranta-quindici Federer serve una seconda palla, Djokovic gli risponde tra i piedi e lui cerca di resistere mettendo semplicemente la racchetta: palla in corridoio. Il primo è andato. C'è sempre il secondo match-point. Che Federer affronta spedito, senza pensare, mettendo in campo la prima oltre i 200 chilometri orari, ruotando attorno alla palla per tirare un dritto a sventaglio dalla parte del dritto di Djokovic, che lo passa con troppa facilità. Quel game basterebbe tenerlo vivo. Ma lo svizzero perde anche i due punti successivi infossando due dritti in rete. 8 pari.
Tutti i federeriani, quando rievocano quella finale, pensano a quei due punti. Ma a ben vedere sull'11 pari Federer, dopo aver vinto in risposta quattro punti di fila, avrebbe l'occasione di tornare a servire per il match. Solo che un recupero in back si spegne a pochi centimetri dalla riga laterale. E un passante viene parato da Djokovic con una reattività insperata.
Sul 12 pari si va al tie-break, e nonostante i grandi numeri depongano a favore di chi ne ha già persi due, dal primo colpo si capisce già che la partita è finita. La palla match con cui Djokovic si porta a casa Wimbledon è il vero congedo di Federer al tennis. Un dritto steccato che si innalza e finisce chissà dove. Al di fuori del tennis.