Il Foglio sportivo
Cent'anni in zona Liedholm
Le invenzioni di un uomo che ha scritto la storia del calcio sia in campo sia in panchina
Nell’estate del 1979 Nils Liedholm andò con la famiglia a Varazze per convincere Ramon Turone, che lui già aveva allenato al Milan, a firmare per la Roma. Con i giallorossi giocava già da tanti anni il capitano Sergio Santarini. Entrambi i calciatori avevano passato i 30 e avevano costruito la loro carriera nel ruolo di libero. Sarà titolare l’uno o l’altro? In ritiro i tre si parlarono. Liedholm aveva già mezza idea in testa e come allenatore sapeva ascoltare i suoi ragazzi. Dal dialogo nacque il progetto di schierarli in linea: Turone a sinistra, Santarini a destra. E la Roma iniziò a giocare a zona. In Serie A qualche esperimento di questo tipo c’era già stato: anche il Napoli di Luis Vinicio era moderno. Ma i zonaioli più convinti del decennio successivo, Sacchi e Zeman, lavoravano ancora nei settori giovanili e avevano appena concluso il supercorso di Coverciano.
Turone e Santarini avevano una fiducia immensa nel loro mister. Ricambiata. I ragazzi si conoscevano bene, tanti anni prima avevano giocato insieme nella Nazionale giovanile. Nel 1966 avevano infatti vinto da titolari il Campionato europeo Under 18, ex aequo con l’Unione Sovietica.
Liedholm iniziò così a costruire una bella Roma, che porterà allo scudetto del 1983 e a un centimetro dalla Coppa dei Campioni. Coi giallorossi vincerà tre Coppe Italia, in precedenza con il Milan aveva conquistato lo scudetto della stella.
L’uomo, di cui l’8 ottobre ricorre il centenario, non è stato solo un allenatore vincente e innovativo. È stato un grandissimo calciatore e di questo ne andava giustamente fiero.
Nato a Valdemarsvik nel 1922, Nils iniziò a giocare con la squadra della sua cittadina. Passò poi all’IK Sleipner e quindi all’IFK Norrköping, entrambe nella massima serie svedese. Entrato nel giro della Nazionale, vinse l’oro olimpico a Londra nel 1948, medaglia di cui sarà orgoglioso fino agli ultimi giorni di vita. Nel 1949 lo acquistò il Milan. Il padre non era d’accordo con la scelta del figlio di puntare sul calcio. Così Nils lo tranquilizzò: “Papà: un anno, massimo due, e poi torno”. Avrebbe vissuto il resto della sua vita in Italia, fino al 2007 quando morì a Cuccaro Monferrato. Qui aveva acquistato negli anni Settanta la tenuta Villa Boemia e assieme al figlio Carlo si sarebbe occupato di Barbera, Grignolino, Pinot nero, Cabernet Sauvignon e Franc. Inaugurando così una tradizione che arriva fino a oggi di uomini di calcio che producono vino.
Da calciatore era un centrocampista ed è così che giocò sia i primi anni in rossonero sia al Mondiale del 1958, quando la Svezia per un attimo spaventò il Brasile di un giovanissimo Pelè. Ma con Gipo Viani, che aveva portato la figura del libero nel calcio italiano che conta, arretrò di un po’ di metri giocando proprio nel nuovo ruolo. Liedholm fu uno dei primi a giocare da libero in Italia e da allenatore uno dei primissimi a cassarne il ruolo. Paradosso di una carriera da pioniere. Negli anni Cinquanta vincerà con i rossoneri quattro scudetti (due ne aveva vinti in Svezia). Era il Milan svedese del trio Gre-No-Li. Con Nils, allora detto Liddas, giocavano i suoi compagni di Nazionale Gunnar Gren e Gunnar Nordhal. Con Nordhal aveva giocato anche nel Norrköping e si erano trasferiti a Milano a distanza di pochi mesi.
Carlo Liedholm, il figlio di Nils, ha fatto vino per trentasette anni, poi gli eredi si sono laureati presto e hanno intrapreso altre carriere. Non avendo più stimoli ha chiuso l’attività qualche anno fa, anche se il marchio Liedholm continua a esistere nel mondo del vino, non solo in quello del calcio. “Il compagno a cui era più legato – racconta Carlo al Foglio Sportivo – fu Nordhal. Mentre da allenatore non ha mai avuto pupilli, nessun giocatore è mai venuto a casa nostra. Riteneva che alcuni calciatori potessero essere più funzionali alle esigenze tecnico-tattiche della squadra. Ma non aveva di certo figli e figliastri”.
Liedholm fu pure un eccellente talent scout, oltre che un maestro di calcio nelle giovanili del Milan. Fu lui a selezionare Pierino Prati e Nevio Scala, che lo ricorda ancora oggi con grande affetto e riconoscenza, durante dei provini per il Milan. Fece debuttare, giovanissimi, in Serie A Franco Baresi e Paolo Maldini. Volle l’acquisto di Giancarlo Antognoni quand’era a Firenze per poi farlo esordire. Chiese Roberto Bettega in prestito alla Juventus, dove giocava con la Primavera, e lo lanciò in Serie B con la maglia del Varese. Anche Bruno Conti esordì in A con la Roma con lui seduto in panchina.
Durante la settimana che precedeva le partite gli piaceva inventare soluzioni alternative. Nel 1981 per Napoli-Roma pensò di piazzare il centravanti Pruzzo sul libero del Napoli Krol che impostava sempre l’azione. Nella stagione 1986-87 in una difesa schierata in linea a zona mise Filippo Galli a marcare a uomo Platini, Maradona e Brady.
La sua flemma era impossibile da scalfire. Aveva inoltre un senso della battuta fuori dal comune e alcune sue frasi sono diventate aforismi leggendari. “Non vado a Torino per lealtà verso il campionato. La Juve e io, insieme, lo uccideremmo”, quando non firmò per la panchina bianconera. “Stai bene? Allora ce la fai a salire le scale della tribuna...”, a un calciatore che voleva affrettare i tempi di recupero. “Un giorno sbagliai un passaggio, non succedeva da due anni e tutto lo stadio fece un oohhh di meraviglia”. Lo stadio era San Siro e lui giocava con i rossoneri.
Un giorno all’infortunato Luciano Marangon chiese se avesse messo il ghiaccio “sullo champagne… non sulla gamba”, visto che il terzino era considerato un impenitente playboy. Andrea Manzo era un centrocampista del Milan anni Ottanta e in quel momento impegnato sentimentalmente con Dorina Vaccaroni, olimpionica infortunata alla gamba. Chiese a Dorina quando avrebbe tolto il gesso. E poi al suo giocatore, che non aveva la classe di Rivera, fece ironicamente la stessa domanda. “Un giorno a San Siro tirai fortissimo, colpii la traversa e il pallone ritornò nella nostra area”. Alcune citazioni sembrano improbabili da tanto fulminanti. Come quando raccontò che con una mossa di lotta greco romana mise a terra l’allenatore Viani, un omone grande e grosso, tra l’altro non troppo propenso a farsi mettere le mani addosso.
Di lui i calciatori dicono fosse molto scaramantico, il figlio però sostiene che “a casa non lo era per niente, forse nel calcio sì ma come tantissimi altri. Negli anni Sessanta si interessò di astrologia, non nel senso di predizione del futuro ma per inquadrare meglio i caratteri dei calciatori. Lasciò perdere abbastanza in fretta”.
Un po’ più tristi forse gli ultimi anni di carriera del Barone, così chiamato per lo stile in campo e fuori e per via del matrimonio con la contessa Maria Lucia Gabotto, da lui chiamata semplicemente Nina.
Era al Milan quando Berlusconi acquistò il club nel 1986. Non ci fu una sintonia immediata. Venne sostituito a stagione in corso da Fabio Capello, che lo aveva avuto come allenatore e che volle avere vicino il suo vecchio mister per i mesi che mancavano a concludere la stagione. Oltre di Capello e Scala, Liedholm è considerato il maestro anche di Trapattoni e Ancelotti.
Farà ancora altre due stagioni a Roma sul finire degli Ottanta, portando i capitolini al terzo posto. Nel 1992 proverà invano a salvare il Verona, lui che non era mai retrocesso in carriera. Nel 1997 il presidente Sensi lo chiamò per sostituire l’argentino Bianchi in una stagione disastrosa per i giallorossi. Il Barone arrivò così a 996 panchine in totale. A 75 anni non era più il suo calcio, probabilmente non si sentiva più lui stesso un allenatore.
“Quegli anni – racconta il figlio – noi in famiglia li abbiamo vissuti molto bene, perché era spesso a casa. Il 1997 con un po’ di apprensione per via degli acciacchi che ormai il papà aveva. Lui comunque è stato sempre un allenatore, da quando giocava fino all’ultimo. È stato attivo nel calcio per oltre 50 anni, ne aveva visti di cambiamenti ma lui è sempre stato molto portato all’innovazione”.