Foto di Sander Koning per Ansa 

pallavolo

Paola Egonu ha il diritto di chiedere rispetto senza diventare un'icona

Giovanni Battistuzzi

Lo sfogo (privato) dell'opposto della Nazionale di volley femminile è diventato pubblico. Lo sconforto di una campionessa alle prese (ancora) con il razzismo e l'esigenza di non mescolare il piano degli insulti a quello sportivo

La convinzione che gli sportivi siano cavalieri senza macchia pronti a scagliarsi contro avversari, corazzieri capaci di sopportare tutto, insulti e pressioni, non si sa bene quando sia iniziata. Si è però radicata (non solo) nel nostro paese, accanto a quell'altra convinzione, abbastanza difficile da sradicare, che i campioni debbano essere campioni anche fuori dal campo, esempi da seguire. Possono non esserli. E possono farsi prendere dallo sconforto, da crisi personali, sfogarsi senza combattere per una causa. Chiedere rispetto senza diventare icone. È successo a molti. In questi giorni a Paola Egonu.

 

La Nazionale italiana di pallavolo femminile aveva appena conquistato il bronzo ai Mondiali battendo gli Stati Uniti, quando l'opposto si è avvicinata al suo procuratore, Marco Raguzzoni, e ha detto, quasi in lacrime: "Non puoi capire, questa è l’ultima partita in Nazionale. Mi hanno anche chiesto perché sono italiana. Sono stanca". Uno sfogo privato diventato pubblico grazie alla diffusione del video. Uno sfogo privato di una giocatrice che sognava un'altra medaglia, l'oro, che i più dicevano potesse essere alla portata delle Azzurre, o meglio che dovevano vincere. Non è andata così. La sconfitta contro il Brasile in semifinale ha costretto le ragazze alla finalina.

 

Si è, siamo, sempre parecchio solerti a dar sfogo alla delusione quando le convinzioni precedenti a un grande evento si scontrano con la realtà. Finisce mai che ci si accontenti della possibilità di un terzo posto quando si dava per scontato il primo. E in queste situazioni c'è sempre lo scemo che dalle critiche si passi agli insulti, soprattutto sui social, che sono spesso a sfondo razziale quando si è neri.

 

Paola Egonu ha sbottato. Non è facile sopportare, non è obbligatoria la pazienza, per tutti, anche per i campioni. Non è possibile accettare di non essere considerata italiana se si vive in Italia, si è nati in Italia, si lavora in Italia, si gioca per l'Italia. S'è sfogata con chi le è più vicino. Si dicono tante cose quando si è arrabbiati, non sempre si tiene fede a quanto si dice quando si è arrabbiati. Non è da farne un caso. C'è chi l'ha fatto. Perché tra manifestazioni di stima e di vicinanza, anche istituzionale, tra chi denunciava l'idiozia del razzismo, s'è puntato il dito sul suo "addio" alla Nazionale. Per poi aprire il tema della sintonia saltata nello spogliatoio, dei favori fatti all'opposto (è dagli albori dello sport che nelle squadre le regole per i campioni sono meno rigide che per gli altri. Sintetizzò meglio di chiunque Giuseppe Bruscolotti a proposito di Maradona: “Gode più libertà rispetto a noi? Non vedo il problema. Lui a mezzo servizio riesce a decidere una partita, noi no”). S'è insistito anche sul fatto che Egonu avrebbe dovuto diventare da parecchio icona dell'antirazzismo, come se aver affrontato, più volte l'argomento, non fosse sufficiente. Domenica Paola Egonu ha sottolineato che “se fare un passo indietro (ossia dire addio alla Nazionale, ndr) può servire a mandare un messaggio, allora lo faccio”. Non lo deve fare, non per forza almeno. Ha nulla da dimostrare fuori dal campo. Lo deve fare in campo, sottorete.