Olive #10
La geografia calcistica di Sandro Tonali
Per ogni squadra ci sono città più città delle altre, città dove si deve vincere. Il centrocampista del Milan sa che Verona è una di quelle
C’è mica una sola geografia calcistica, ce ne sono tante, almeno una per squadra. E sono tutte complicate, un grumo di ricordi sentimenti idiosincrasie simpatie e antipatie che con la geografia non hanno nulla a che fare. A volte non si sa proprio con cosa hanno a che fare. Le geografie calcistiche sono ageografiche, sono una figura geometrica mai vista, un accumulo di spigoli che si protendono da un centro minuscolo. È fatta di città, a volte mezze città e metà antipatie e risentimenti che le rendono città più città delle altre. È così per i tifosi che guardano la partita. È così a volte anche per i giocatori che giocano la partita e che da piccoli sognavano di giocare la stessa partita con la stessa maglia che hanno addosso. Ce ne erano di più un tempo, qualcuno resiste ancora.
Sandro Tonali è uno di questi.
Sandro Tonali da bambino sognava di fare quello che sta facendo ora da adulto. Ventidue anni è età adulta checché ne dicano gli italiani che ancora chiamano ragazzi gli ultratrentenni. Da adulto però Sandro Tonali è rimasto (più o meno) fedele a quello che s’era promesso, aveva sperato, di fare, cioè diventare calciatore e giocare per il Milan. È mica secondario tutto questo nel suo presidiare la mediana rossonera. E non è secondario perché quando la partita si complica, soprattutto certe partite in certe città che sono più città delle altre, a Sandro Tonali s’accende una tigna speciale che gli sospende la percezione della fatica, dei chilometri corsi, delle botte prese e date, e lo spinge a fare quello che non che non è richiesto che faccia, ossia decidere la partita.
Verona per i milanisti è una delle città più città delle altre. E lo è per via di quel grumo di irrazionalità che determina la geografica calcistica. A Verona, da quando esiste il girone unico in Serie A, il Milan ha vinto tredici volte, in otto occasioni ha rimediato un pareggio, dieci volte è uscito sconfitto. Con Torino, Juventus, Inter, Lazio, Fiorentina, Napoli, Roma, Udinese, Vicenza, Genoa, Bologna, Atalanta, Sampdoria (tra le squadre con almeno trenta incontri) ha percentuali di vittoria fuori casa peggiori. Verona è però fatale per antonomasia: a Nereo Rocco costò la stella nel 1973, la prese Nils Liedholm sei anni dopo; ad Arrigo Sacchi il secondo scudetto, che non conquistò mai.
Sandro Tonali ha segnato sei gol con la maglia rossonera addosso, tre al Verona, tutti e tre in due partite che si erano complicate ben più di quanto ci si poteva immaginare. Due li ha fatti l’otto maggio del 2022 e hanno ribaltato la rete di Davide Faraoni. Il terzo domenica 16 ottobre 2022. Anche in questo caso gol decisivo, quello del 1-2. Tutti e tre seguendo, inseguendo, l’azione, con quel minimo di disperazione che si ha quando in testa rimbomba il diktat nonsipuònonvincerenonquialmeno. C’è gente, molta, che si è fatta amare per parecchio meno.
È difficile non voler bene, se si è milanisti, a uno come Sandro Tonali, uno che conosce a menadito la geografia calcistica, uno che conosce quali sono le città più città delle altre, uno che sa quando nonsipuònonvincerenonquialmeno.
C’è voluta un po’ di pazienza con Tonali. Era arrivato al Milan che gli tremava la voce, che aveva una faccia da ragazzino, spaurita e orgogliosa, come quando ci si trova nel luogo dove si sperava di essere. Era arrivato con un macigno sulla schiena chiamato Pirlo, perché di Andrea Pirlo c’aveva il taglio di capelli e quel piede niente male e pure un po’ la postura palla al piede. E servì a niente dire che aveva scelto il numero 8 perché ammirava Ringhio Gattuso e che non era proprio un regista, ma uno che se c’era da menare menava. Ha mai tirato indietro la gamba Tonali. E se c’era da correre, ha sempre corso e sapendo sempre dove andare. Anche quando sugli spalti una parte dei tifosi diceva che il milanismo era positivo, ma un giocatore non poteva essere giudicato solo per quello. Li ha mai ascoltati Paolo Maldini questi tifosi. Ha mai ascoltato davvero la curva, parte di essa almeno, quella che infangò il suo ultimo giro di campo. La dirigenza rossonera aveva visto in quel ragazzo il potenziale giusto per giocare nel Milan. Ha pagato quello che doveva pagare per averlo a titolo definitivo – circa 17 milioni tra prestito e riscatto – per regalarsi e regalargli un futuro in quel centro dal quale dipendono tutti gli spigoli di quella stramba figura geometrica che è la geografia calcistica. Era mica scontato che andasse così, la pazienza e il rischio dell’attesa è diventato un lusso che i più non vogliono concedersi. Vedendo correre e giocare Sandro Tonali viene in mente che “è bello sapere che siamo delle bestie imperfette / e un poco del meglio che forse possiamo fare / è baciare le ragazze e poi, e poi tenerle strette / e poi applaudire molto Tonali e imparare a calciare”, a dirla, più o meno, con Claudio Lolli.
Olive è la rubrica di Giovanni Battistuzzi sui (non per forza) protagonisti della Serie A. Nella prima puntata si è parlato di Khvicha Kvaratskhelia, nella seconda di Emil Audero, nella terza di Boulaye Dia, nella quarta di Tommaso Baldanzi, nella quinta di Marko Arnautovic, nella sesta vi ha invece intrattenuto Gabriele Spangaro con Beto, nella settima di Christian Gytkjær, nell'ottava Armand Laurienté, nella nona Sergej Milinkovic-Savic.