Il Foglio sportivo
Il giorno di Galliani e Maldini
Questo sabato, per la prima volta, i due giganti rossoneri saranno davvero avversari. Il tempo ha sanato le cicatrici del rapporto (aspro) di una coppia di sacerdoti del calcio moderno, in eterno bilico tra passione e ossessione
Può anche darsi che in un qualche baule nella soffitta di Casa Milan stia nascosto un ritratto di Paolo Maldini che appassisce al posto dell'originale. Sicuramente non è così per Adriano Galliani: nella bella intervista in onda in questi giorni su Dazn lo vediamo vecchio, orgoglioso di esserlo, incline alla commozione, per nulla preoccupato di interrogarsi a voce alta su come sarà la fine di tutto, che Galliani si augura sopraggiunga sul più bello, al culmine di una festa scudetto, Champions o promozione in Serie A.
È la trasposizione calcistica di quell'antica leggenda Quechua secondo la quale il Condor, quando si sente stanco e in pace con la vita, decide di andarsene sul proprio campo di battaglia e si lascia cadere dalla montagna più alta senza battere le ali. A ogni modo, non è oggi che succederà. Non sabato sera a San Siro, la partita che il 78enne fanciullino Adriano Galliani da Monza aspetta da quattro anni, da quando in un pranzo del martedì ad Arcore ha buttato giù al Cav. la proposta di acquistare il vecchio club del cuore che languiva in Serie C, catturando lo stesso lampo di entusiasmo dei vecchi tempi. In questi giorni Berlusconi è tornato con furore a indossare i panni della mina vagante a Roma e Giorgia Meloni deve sentirsi un po’ come Allegri o Ancelotti ai tempi che furono: da un momento all’altro le chiederà di schierare titolare la trequartista Casellati, o che Zelensky deve giuocare più vicino alle punte.
Così Galliani ha mani libere per traghettare il Monza sempre più su dove osano i condor, addirittura nella colonna di sinistra della classifica, traguardo impensabile solo un mese fa. La nobiltà di toga di Galliani, partito dai ripetitori televisivi e approdato al rango di Inossidabile, massimo notabile dei notabili del calcio italiano, si troverà di fronte alla nobiltà di spada rappresentata dall’aristocratico Maldini, per stirpe condannato alla vittoria. Sono molto diversi e la cosa ci è assai chiara ormai da trentacinque anni, ma il primo confronto diretto tra Maldini e Galliani merita ugualmente una riflessione a proposito della sabbia che scivola nella clessidra, o su come si possa aspirare alla grandezza iniziando il cammino da due punti di partenza opposti. Il tempo ha sanato le cicatrici del rapporto tra Maldini e Galliani, per forza aspro come si conviene a due personalità così spigolose e totalizzanti. “Galliani non è in grado di capire i giocatori e si affida sempre agli stessi procuratori – in particolare uno”, aveva commentato Maldini intorno al 2014, nei tempi bui in cui il Milan tardo-berlusconiano soffriva di raiolite acuta e lui s’era sdegnosamente ritirato nell’accampamento come Achille dopo il litigio con Agamennone. Galliani aveva atteso anni per riportare la sua versione dei fatti: “Avevo offerto a Maldini tutte le posizioni che non fossero la mia, ma lui non ha accettato. Il mio posto non gliel’ho offerto, perché non sono così generoso”. Le tracce di uno scontro quasi ideologico, prima che il tempo smussasse gli angoli e che Maldini sperimentasse il sapore aspro della responsabilità manageriale, da direttore tecnico di un Milan molto più squattrinato rispetto a quello colossale di cui era stato capitano.
Così oggi s’incontreranno pubblicamente intorno alle 17:50 nel piccolo mondo antico della tribuna d’onore di San Siro, osservati e filmati in lo sreligioso silenzio da tutti gli smartphone del primo anello rosso che tante volte in trent’anni si era alzato volgendo le spalle al campo per applaudire Kakà, contestare Seedorf, mandare consigli più o meno educati su Savicevic o Rui Costa. Da quel momento e per due ore saranno ufficialmente avversari, nella maniera più sincera in cui lo siano mai stati. Galliani rinuncerà a essere Galliani: si dedicherà allo yoga mentale per non lasciar trapelare la minima emozione, ben consapevole delle telecamere che avrà puntato addosso. Invece Maldini, che da Principe qual è, notoriamente delle telecamere se ne frega, continuerà a essere Maldini, come ha fatto in quella scena rivelatrice durante Milan-Juventus, sul finire del primo tempo, quando per stemperare la tensione ha folgorato Massara con un’improvvisa citazione fantozziana (“Batti lei!”) – e non è affatto facile far ridere Massara, specialmente durante Milan-Juve – e subito dopo i pianeti si sono allineati al suo volere per l’ennesima volta, propiziando il gol di Tomori.
Nelle battaglie al centesimo di euro combattute da Maldini per rinnovare il contratto di Rafael Leao (ce la farà?) o per portare a casa De Ketelaere, che con tutto il rispetto non è ancora né Nesta né Ibrahimovic, insomma nel sudore da dirigente che forse Paolo non si aspettava di versare soprattutto dopo aver vinto uno scudetto memorabile, sta forse anche la rivalutazione del Galliani amministratore delegato, plenipotenziario di fatto ma non fino al punto di sbloccare da solo la cassaforte, come non lo è Maldini, traghettatosi da una proprietà all’altra ma ancora senza plafond illimitato. E quindi cosa si prova adesso capitano, figlio di Cesare, padre della patria rossonera, a esercitare lo sporco lavoro di colui che deve far quadrare i conti? Maldini e Galliani restano ognuno a modo loro due giganti, due sacerdoti del calcio moderno, in eterno bilico tra passione e ossessione, che hanno accettato da tempo immemore la regola più misteriosa e inafferrabile del pallone, indifferente a ogni aumento di capitale e a ogni Moneyball strategy: vincere, è un mistero.