Il Foglio sportivo
Rossi, Federer, Pellegrini: I millennial orfani dei loro idoli sportivi
Sono stati i protagonisti del primo decennio degli anni Duemila, quando la coda della generazione Y iniziava a guardare corse, gare o partite. La loro lunga parabola sportiva e il modo di approcciarsi al ritiro hanno dei punti in comune che, oltre a raccontare le proprie storie e passioni, sono stati di profonda educazione per gli stessi tifosi
Cesare Cremonini si aiutò con la marmellata per superare il ritiro di Baggio e la morte di Senna. Certo, le sue domeniche peggiorarono per un addio più traumatico, ma il decennio trascorso tra la fine tragica del pilota brasiliano e l'abbandono dei campi del Divin Codino gli resero almeno più facile l’elaborazione del lutto sportivo.
Chi invece ora ha appena superato il quarto di secolo e si aggira sulla soglia dei 30, anno in più anno in meno, ha incassato in un anno l’addio alle competizioni di Valentino Rossi e Roger Federer. Due icone mondiali che hanno preceduto per fama i loro sport, ne hanno allargato le platee oltre i puristi. Per qualcuno anche una colpa: il tifo per il singolo prima della conoscenza tout court della disciplina. Un vizio che tanti Millenial, la generazione Y identificata con i nati tra il 1980 e il 1996 (in questo caso, più la seconda metà), hanno applicato nel tennis e nel motociclismo. Persone ammaliate da un tweener di Federer prima di cogliere la differenza tra colpo piatto e top spin, gasate da un sorpasso di Rossi prima di addentrarsi nella comprensione dei vari tipi di pieghe. Sono meccanismi non sempre spiegabili, dove alle vittorie, al talento e all’abitudine di legare alla carriera di uno sportivo il tempo e la propria vita che passano, si somma una qualità particolare, un modo di presentarsi al mondo. Per Federer sono state la classe e l’eleganza, sia nei gesti tecnici in campo che nei comportamenti fuori. Per Rossi il fare scanzonato, il rifiuto di interpretare la vittoria come arma di riscatto o giusto compenso per fatica e sacrifici, ma come festa da celebrare con coreografie a fine gara. Una filosofia immutata nel ritiro dello scorso anno, diventato “una scusa per fare casino”.
Sono stati i protagonisti del primo decennio degli anni Duemila, quando la coda della generazione Y iniziava a guardare corse e partite o, meno consapevolmente, era più sensibile ai richiami di ciò in cui si imbatteva, immagini, nomi ripetuti spesso, abitudini. Domeniche all'insegna di gran premi e finali di Slam, in un lasso di tempo che non è stato solo il loro, ma anche quello di Serena Williams, altra icona appena congedatasi dall'agonismo. E di Federica Pellegrini, dall'eco meno globale rispetto agli altri, ma così coerente nel guadagnarsi l'appellativo di “Divina” dentro e fuori le vasche.
La loro lunga parabola sportiva e il modo di approcciarsi al ritiro hanno dei punti in comune che, oltre a raccontare le proprie storie e passioni, sono stati di profonda educazione per gli stessi tifosi. Diventati idoli per l'abitudine nel vincere e dominare con un loro stile, tutti si sono imbattuti in una sconfitta inaspettata che ne ha incrinato le certezze, hanno dovuto affrontare avversari più giovani, forse anche migliori, il declino del loro corpo e delle prestazioni. Hanno condotto con coraggio i loro tifosi alla scoperta della sconfitta, dell'impossibilità di realizzare l'ultimo obiettivo: il nono Wimbledon, il decimo Mondiale, un'altra medaglia olimpica. Non è mai facile accettare la fallibilità del proprio idolo, soprattutto se prolungata. Il Gp di Valencia 2006, l'Australian Open 2009, la finale dei 200 stile libero a Londra 2012 sono state tristi epifanie da cui sono nate seconde fasi di carriera simili: c'è stata la capacità di tornare a vincere, ma anche un rapporto più abituale con la sconfitta. I dritti sulla rete o le cadute di troppo hanno pregiudicato quei finali trionfali che sia loro stessi che i tifosi avevano immaginato e ritenuto giusti. Cos'hanno fatto Rossi e Federer per meritarsi il losco epilogo del Mondiale 2015 e i due match point sprecati a Wimbledon 2019? Perché la Pellegrini ha continuato a vincere Mondiali e a perdere Olimpiadi?
Domande che hanno dilaniato i tifosi, sempre più scettici quando sono subentrati i decimi posti e i bollettini medici, quando Marquez e Djokovic apparivano imbattibili, quando la decadenza era palese. Nel settembre 2020 Pellegrini e Rossi annunciarono di aver contratto il Covid tra lacrime e rabbia. Sembrava una reazione eccessiva in un momento della loro carriera in cui il meglio era alle spalle. Era però in atto il tentativo di rimanere aggrappati il più possibile alle piste e alle vasche che stavano finendo. Ma chi glielo fa fare ancora? Invece di rispondere a questa domanda, i millenial hanno imparato a non pretendere il finale perfetto. Una resa alla disillusione? Forse, ma soprattutto la capacità di rispettare la passione e la grandezza di chi ha potuto concedersi il lusso di diventare più importante dei propri risultati.
Dopotutto, per una generazione già abituata a fare i conti con la nostalgia e in maniera inaspettatamente crudele (Kobe Bryant, Michael Schumacher), le passerelle finali come la Laver Cup o i farewell tour rappresentano una giusta forma di risarcimento, la celebrazione necessaria di un distacco non traumatico, in parte già metabolizzato, un'ultima visita al capezzale in cui la malinconia della fine è mitigata dalla gratitudine per una lunga vita assieme.