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Serie A

Il Milan stordito dal jet-lag mentale

Giuseppe Pastore

I rossoneri e la Lazio erano tra i candidati più autorevoli per dare fastidio al Napoli primo in classifica. Hanno entrambe perso, rispettivamente contro Torino e Salernitana. Cosa sta accadendo alla squadra di Pioli?

Sembrava un weekend interlocutorio, a tratti piuttosto insulso, in cui tutte le grandi erano destinate a vincere di riffa o di raffa contro tutte le medio-piccole: invece il doppio black-out di Lazio e Milan rimette in discussione le certezze di due tra le squadre più brillanti del momento e sottolinea la difficoltà di tenere mentalmente, tra un Sarri che risparmia per il derby il diffidato Milinkovic-Savic, e mal gliene incoglie, e un Pioli che fa la formazione col bilancino pensando palesemente al futuro mercoledì da leoni col Salisburgo, e mal gliene incoglie. Gode il Napoli, che sta bene sotto ogni punto di vista.

 

Diciamoci la verità, almeno noi: se dopo 12 giornate la squadra in testa a +5 sulla seconda e +6 sulla terza si chiamasse Juventus, Inter o Milan non avremmo dubbi sull'esito del campionato. È a questa “disabitudine” che si aggrappano i gufi e s'interroga il Napoli, che in realtà razionalmente dovrebbe uscire dalla pausa Mondiale ancora più riposato, visto che vi parteciperanno solo in cinque o sei e i vari Kim, Anguissa, Lozano e Zielinski – non ce ne vogliano – non sembrano destinati a fare molta strada.

  

In una Torino in pieno tilt da global warming, simboleggiato da un Pioli in maniche corte la sera del 30 ottobre, il Milan riesce nel paradosso di azzeccare l'approccio – due palle-gol clamorose sprecate da Leao nei primi cinque minuti – e steccare tutto il resto. L'allenatore non fa valere la propria superiorità tecnica lasciando in panchina l'imprescindibile Bennacer e ripete così l'errore dei primi 60 minuti di Verona, dove un Milan sempre rattoppato aveva sofferto le pene dell'inferno contro un'altra squadra para-gasperiniana, sempre dopo essersi illuso che si sarebbe trattato di passeggiata. Ma la presunzione a cui facevamo riferimento a inizio stagione, motivata da quel triangolino di stoffa sul petto, in realtà a Torino non s'è nemmeno vista: solo confusione, ritmo isterico senza ragionamento, incapacità a sottrarsi al prevedibile registro adottato dal Toro. Un'assenza di idee che raramente abbiamo visto in questi tre anni di Pioli, con la squadra che s'affretta a smentire qualunque retropensiero al Salisburgo.

 

Nel secondo tempo ancora peggio, dopo i cambi “di pancia” di Pioli che non hanno affatto migliorato la situazione, portando a una rinuncia programmatica a giocare a pallone, con la ricerca del lancio lungo come unico tema di gioco – brani di calcio-rugby a lungo strazianti che hanno prodotto la miseria di un solo tiro nello specchio della porta, il gol peraltro irregolare di Messias. Quando sedici giocatori su sedici giocano sotto la sufficienza – e dallo sfacelo di Torino non si sono salvati nemmeno i subentrati, da Rebic a De Ketelaere, da Dest a Giroud – è evidente che c'è un problema di centralina, il benedetto interruttore che non riesce mai a rimanere costantemente acceso tra Champions e campionato, un problema che si era verificato anche lo scorso autunno per colpa degli infortuni a ripetizione – allora e oggi, rimane particolarmente sanguinoso quello di Maignan, del cui carisma il Milan stralunato di ieri sera avrebbe avuto gran bisogno.

  

Mentre conta i giorni che lo separano dalla pausa (Salisburgo, Spezia, Cremonese, Fiorentina: il calendario non è impossibile), il Milan ha il merito di non piangersi addosso pubblicamente, ma alla quarta sconfitta in 17 partite stagionali – più o meno un terzo del totale – è pacifico che stia mancando qualcosa. Sicuramente l'apporto del mercato, che fin qui ha prodotto un solo gol (Origi contro il Monza) e numerosi casi da dimenticatoio (di Adli, dopo il problematico primo tempo di Verona, si sono di nuovo perse le tracce). Poi la smarrita solidità difensiva: niente voragini ma puntuali smagliature, solitamente su calcio piazzato, l'avvisaglia di una coperta corta che si trascina dalla prima di campionato, iniziata anche quella con un gol di testa preso dopo 80 secondi da Rodrigo Becao dell'Udinese. Ma soprattutto un'intensità emotiva che questi giocatori, in molti casi futuri campioni ma non ancora rotti al cinismo da vecchi lupi proprio di un Real Madrid, non riescono a mettere scendendo in campo ogni tre giorni. Da qui i passaggi a vuoto, i primi tempi trascinati, la necessità di ricaricare le batterie.

 

Ieri poi è mancato in modo spettacolare Rafa Leao, sceso in campo con le pattìne, di destro e di sinistro, e tornato quello abulico ed esteticamente indolente dei tempi peggiori, immagine che – nonostante i premi da Mvp e i piazzamenti al Pallone d'Oro – i tifosi del Milan fanno ancora fatica a scacciare del tutto dalla mente. Rispetto all'anno scorso, il girone di Champions alla portata, da superare a tutti i costi secondo un diktat societario nemmeno troppo sussurrato, ha aggiunto il peso della responsabilità: quella che manca al Napoli, che in queste settimane sta giocando sulle nuvole caricandosi a pallettoni anche al ritmo delle goleade sfornate ai quattro angoli del continente. È come un fenomeno atmosferico, un'alta pressione che stordisce chi non ci è abituato, blocca le orecchie come il primo volo transoceanico per passare da una confortevole e provinciale dimensione italiana a qualcosa di più. Turbolenze, vuoti d'aria che non si risolvono con una gomma da masticare. Il Milan è palliduccio, provato dal jet-lag mentale di dover volare con la testa da Zagabria a Torino a Salisburgo in meno di una settimana: tutta esperienza. Potrebbe bastare lo spesso, passare in fretta, ma non aveva fatto i conti con questo Napoli clamoroso. La quota-scudetto degli azzurri è ora destinata a crollare, nelle classiche oscillazioni da panico di cui è costellato un campionato di 38 giornate. Sicuramente il Napoli ha preso a ceffoni la metà e la bassa classifica con pochissime esitazioni, e il vento in poppa li sta rendendo ancora più adulti e consapevoli: non solo i campioni della rosa, ma anche soldati semplici come Mario Rui e Politano, trascinati dall'entusiasmo tecnico e psicofisico generale. Si può pensare concretamente a un'ipotesi che fino a pochi mesi fa ritenevamo impossibile, ovvero quattro scudetti diversi nelle ultime quattro stagioni: non succede da vent'anni, e in fondo è una cosa che non dispiacerebbe a nessuno. Men che meno alla Serie A.

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