il derby della capitale
Pedro il risolutore. Roma-Lazio e il peso specifico dello spagnolo
Apprezzato da tutti, ma preferito di nessuno, lo spagnolo ha rappresentato per tutta la sua carriera una fulgida illusione. Eppure per dieci anni l'attaccante non si è limitato a giocare finali, le ha soprattutto decise
Si può scrivere la storia senza dover necessariamente finire in copertina. Un controsenso doloroso che ha finito per racchiudere tutta l’essenza di Pedro, l’uomo capace di alzare al cielo venticinque trofei in squadre che però appartenevano sempre a qualcun altro. Il Barcellona di Guardiola prima e di Messi-Neymar-Suarez poi, il Chelsea di Hazard, la Spagna di Xavi e Iniesta. Eppure per dieci anni Pedro non si è limitato a giocare finali. Lui le ha soprattutto decise. È stato così nella notte di Monaco del 2009, nella Supercoppa Uefa contro lo Shakhtar Donetsk. Ed è andata avanti fino a Baku, nel 2019, nell’Europa League vinta contro l’Arsenal. Solo che mentre il suo nome non riusciva a saltare lo steccato della cronaca, quello dei suoi più illustri compagni ascendeva verso la luce beata della leggenda. Eterno candidato all’Oscar come miglior attore non protagonista, l’esterno di Santa Cruz de Tenerife ha finito per restare imprigionato nel ruolo di talento puro che riusciva a espandersi solo se inserito in un collettivo, ha elevato a sistema quella frase di James Ellroy che recita "La classe non ostentata si nota", stemperandola però con un tono quasi consolatorio. Apprezzato da tutti, ma preferito di nessuno, lo spagnolo ha rappresentato una fulgida illusione.
Quel diminutivo, “Pedrito”, gli è rimasto appiccicato addosso fino a preservarlo dallo scorrere del tempo, imprigionandolo in una perpetua giovinezza, banalizzando il suo talento. "Ci si abitua talmente alle persone che continuiamo a vederle come le abbiamo viste la prima volta", scrive Georges Simenon. E per tutti Pedro è rimasto quel ragazzo che correva sulla fascia ai tempi della terza squadra del Barcellona, quando era arrivato a un passo dallo smettere, un genietto tascabile in grado di spingere sull’acceleratore ma anche di galleggiare fra le linee, di dribblare per accentrarsi e crossare ma anche per cercare la porta avversaria. Caratteristiche che hanno attraversato intatte le diverse fasi della sua carriera. Anche quando ha deciso di salutare tutti e andare via dal Barcellona, il club della sua vita. Luis Enrique non era il tipo che amava troppo fare i cambi. E il tridente offensivo era già composto da Messi, Suarez e Neymar. Perché dunque accontentarsi delle briciole se aveva ancora fame? "La cosa più facile sarebbe stata restare – ha confessato qualche tempo dopo – ma non mi interessava essere presente nelle foto con il trofeo in mano. Così ho deciso di cambiare aria". Il Chelsea come nuova casa. Ma il ragazzo che era stato simbolo della squadra di Guardiola non poteva diventarlo anche in quella del grande nemico di Pep, Mourinho. Anche se il portoghese lo aveva chiamato un paio di volte per convincerlo. Anche se quei blues avevano un bisogno disperato del suo talento. Il secondo regno di Mou a Londra finirà dopo sei mesi. Quello dello spagnolo durerà altri quattro anni. Con altri trofei e altre soddisfazioni. E con altri gol capaci di diventare gioia collettiva, orgasmo diffuso.
L’ultimo capitolo della sua storia lo porta a Roma. Prima in giallorosso, con Paulo Fonseca in panchina. Il punto più alto della sua parabola è il gol nel derby del 15 maggio 2021, vinto 2-0 dalla Roma, con il suo rendimento che aveva cominciato ad avvitarsi in una picchiata pericolosa proprio come quello del resto della squadra. Poi l’annuncio. La Roma sarebbe ripartita da José Mourinho. Che significava che la Roma non sarebbe ripartita da Pedro. Lo spagnolo può partire a zero, è declassato a personaggio in cerca d’autore.
L’approdo alla Lazio è una scelta che non fa particolarmente piacere a nessuno. Almeno fino a settembre, quando lo spagnolo segna nel derby vinto per 3-2 dai biancocelesti. Ed esulta anche. Il trasferimento funziona. Perché Sarri gli chiede di dare velocità alla fascia destra, di scomparire per riapparire al momento giusto, di correre alle spalle degli avversari, di trovare la porta. Insomma, di essere semplicemente se stesso. Pedro sfiora la doppia cifra, poi in questa stagione dimostra di poter essere importante anche a partita iniziata. Segna due gol, serve altrettanti assist, crea giocate dal nulla. Ora l’infortunio di Immobile e la squalifica di Milinkovic-Savic costringeranno Sarri a disegnare qualcosa di nuovo. Pedro non sarà più comprimario ma protagonista, dovrà partire largo e convergere verso il centro, costringendo i compagni a parlare la sua stessa lingua calcistica, trasformando la Lazio di Immobile nella sua Lazio. Almeno per una partita. Non un grande problema per l’uomo abituato a segnare gol pesanti.
Il Foglio sportivo - In corpore sano