il foglio sportivo
Samoa, l'isola del rugby felice
All’inizio per giocare bastavano le noci di cocco. Oggi tutti provano a rubarle giocatori
A mettere Western Samoa sul mappamondo fu la Coppa del mondo di rugby nel 1991. Un girone non di ferro, ma di più, di acciaio: con Australia, Galles e Argentina. L’esordio contro il Galles a Cardiff, nell’Arms Park, esaurito, 45 mila spettatori. Nel primo tempo i Dragoni, strafavoriti, non ci capirono nulla: disorientati dalla corsa, sorpresi dalla fisicità, fermati sul 3-3. All’inizio del secondo tempo capitolarono: prima la meta del centro samoano To’o Vaega, poi quella del terza ala Sila Vaifale, finirono sconfitti 16-13. Mentre i giocatori uscivano dal campo, un tifoso gallese entrò nella storia: “Meno male – commentò – che non abbiamo giocato contro l’intera Samoa”. Il bello è che Samoa, sempre e solo quella formato Western, si ripeté contro i Pumas argentini ed entrò ai quarti di finale.
Arcipelago, 10 isole occidentali (indipendenti) di cui sei disabitate, sei orientali (statunitensi) di cui una riserva naturale, Samoa vive di cocco e cacao, rugby e wrestling.
Centosettantacinquemila abitanti, 15 mila rugbisti, molti in giro per il mondo, dalla Nuova Zelanda all’Italia. Grandi, grossi, scuri. Fortissimi. Certificati di sana e robusta costituzione a prescindere da visite ed esami. Rugbisti si nasce, poi si può anche diventarlo. I samoani lo diventarono fra Otto e Novecento, quando la religione laica della palla ovale fu introdotta sulle isole dai fratelli maristi cattolici. Era solo un gioco: e per giocare bastavano le noci di cocco. Poi, nel 1914, quando giunsero i neozelandesi, si trasformò in sport: e si moltiplicò fino a essere lo sport nazionale. Il primo match ufficiale risale al 1924: Samoa contro Figi, derby isolano, ad Apia, la capitale di Samoa. Fischio d’inizio alle sette di mattina per permettere ai giocatori samoani, finita la partita, di andare a lavorare. Finì 6-0 per i figiani. La leggenda tramanda che, in mezzo al campo, ci fosse un albero, forse una palma. Ma Geoff Miller, storico neozelandese del rugby, sostiene che quella palma è un mito. Nella partita di ritorno i samoani vinsero 6-0. Avevano preso le misure.
Due anni più tardi la Nazionale samoana si ritrovò per affrontare Tonga, in un altro derby isolano, sempre all’Apia Park. Il cronista del “Samoa Times”, dovendo scegliere fra la partita di rugby e una a campana, scelse quest’ultima. Ma allo stadio di rugby c’era un tipografo, e secondo lui fu Tonga a imporsi 14-5. Lo stesso tipografo profetizzò: “Il prossimo anno, quando Samoa andrà a Tonga, i giocatori di quelle isole piatte avranno bisogno del più grosso albero a Nuku’alofa per ospitare le tacche e tenere il conto delle mete samoane”. L’antenato del segnapunti elettronico.
Oggi Samoa è uno stato indipendente, si chiama Manu Samoa dal nome di un antico guerriero, la federazione di rugby conta su 12 province per 120 club, con 5 mila giocatori in squadre seniores e 10 mila in squadre giovanili. Nel rapporto tra abitanti e giocatori, significa che ogni sabato un samoano su 11 va in campo. E se nella graduatoria mondiale Samoa è solo undicesima (l’Italia quattordicesima), è anche perché viene saccheggiata da altre nazioni a suon di dollari, a cominciare dagli All Blacks. Samoano come Michael Jones, campione del mondo con la maglia numero 7 degli All Blacks nel 1987 (ma da cattolico osservante, la domenica non giocava mai), samoano come Tana Umaga, 74 presenze e 180 punti negli All Blacks, samoano come Jerry Collins, 42 presenze e 25 punti negli All Blacks. E samoano come Brian Lima. Era chiamato “il Chiropratico” per la sua capacità – a furia di placcaggi – di scomporre e ricomporre le ossa degli avversari, 67 presenze (record) e 145 punti in Nazionale pari a 29 mete (più un imprecisato numero di presenze e mete nella Nazionale di rugby a 7), il primo giocatore a entrare in campo in cinque diverse edizioni della Coppa del mondo. Un tipo poco raccomandabile anche fuori dal campo: i trattamenti riservati alla moglie gli sono costati cinque imputazioni e due anni di libertà condizionata.
Samoa è ormai un’avversaria di lusso: rude, più o meno come una volta, pesante, più di una volta, organizzata, più di una volta, e spettacolare, come sempre. Spettacolare anche la sua danza di guerra che, come l’Haka per gli All Blacks, viene rappresentata dopo gli inni e prima del calcio d’inizio. È la Siva Tau: “Samoa! Pronti per la guerra! Combattete con fierezza! Impegnatevi a farcela! Manu! Andiamo! Manu Samoa, che tu possa riuscire nella tua missione!”. Storicamente, è gente che non si abbatte: il giorno (era il 16 giugno 2017) in cui Samoa fermò gli All Blacks sullo 0-0 per la prima mezz’ora, e poi cedette 78-0, il capitano samoano Kahn Fotuali’i spiegò la strategia migliore per fronteggiare i neozelandesi: “Primo, difendere. Secondo, tenere il possesso del pallone. Terzo, avere fortuna”. E che aggiungere alle parole di Senio Toleafoa sulla prodezza del suo compagno Afaesetiti Amosa in una partita contro la Russia: “La meta dell’anno, no? Prima si è rotto i legamenti e poi ha segnato. Meriterebbe una medaglia. È come morire per il proprio paese”.
Sabato, alle 14, al Plebiscito di Padova, tutto esaurito, in diretta tv su TV8 e Sky Sport, l’Italia del rugby se la vede proprio con Samoa. Finora, cinque vittorie samoane e due italiane (nel 2009 e nel 2014, sempre ad Ascoli). Anche stavolta sarà dura. Ma coraggio. Gli altri due match, contro l’Australia il 12 a Firenze e contro il Sudafrica il 19 a Genova, lo saranno molto di più. D’altra parte, è da quelli bravi che s’impara di più, e più in fretta.