e noi a casa
Il Mondiale del "mi accontento". Come sopravvivere senza calcio
Cinquantatré giorni senza il calcio che conta, cioè “il nostro”. Con le partite in Qatar per gli italiani inizia un esperimento sociale mai visto, il lockdown del pallone. Ma saremo resilienti. In fondo, ci frega solo della squadra del cuore. Previsioni
Se vi avessero detto soltanto qualche settimana fa, un mesetto o giù di lì, quando ancora l’estate siccitosa sembrava non dover finire mai, e i volenterosi carnefici della lingua già si preparavano a inventare scemenze come le “novembrate”, giusto per avere qualcosa da dire quando sarebbe uscita di moda la Marcia su Roma e non ancora tornati in auge i migranti, che il weekend che va a cominciare sarà il peggiore della stagione, ecco, ve l’avessero detto, avreste risposto: anche sì. E oggi pensereste, sfogliando la timeline: ci avevano visto giusto. Del resto abbiamo appena schivato la terza guerra mondiale in edizione polacca, la Francia ci tratta a pesci in faccia, siamo fastidiosamente diventati otto miliardi di umani e per il Black Friday c’è ancora da aspettare una maledetta settimana.
Ebbene: risposte parziali, errate. Manca il fattore “fine di mondo”, che non è Putin. Solo qualche mesetto fa non avremmo saputo prevedere il vero evento catastrofico, il vero virus depressivo-scatenante di questa strana, malmostosa stagione autunno-inverno che va a iniziare. Per noi italiani medi, almeno.
Il weekend che arriva sarà il primo di otto senza partite di calcio. Per noi italiani, almeno. Senza campionato, senza coppe europee, senza Champions, senza manco un turnetto di inutile Coppa Italia. Perché da domenica tutto il football che conta al mondo sarà in Qatar, ai Mondiali. L’Italia invece no. E ancora peggio dei giornali di sabato sarà la domenica pomeriggio, ore 20 per il fuso orario di Doha, quando scenderanno in campo Qatar ed Ecuador: poco più di Botticino-Lumezzane. E noi a casa.
Il primo evento inconsueto, quasi un disastro ambientale, di questa strana fall-winter season italiana 2022 era in realtà già avvenuto prima, preannunciato da temporali agostani senza una goccia d’acqua. Per gli effetti a lungo termine c’è da spettare: al momento sembriamo essere la nazione più resiliente del mondo anche ai peggiori capitomboli. In estate, insomma, s’era verificata la caduta balneare del governo Draghi, quattro passi nel delirio mentre volava il prezzo del gas, che avevano aperto le danze di una inusuale campagna elettorale ferragostana a voto settembrino: mai visto nella storia repubblicana, e tutti gli aruspici a prevedere cataclismi.
Ma niente, tra un rutto su Twitter, una polemica antifa e promesse di danari come manco al calciomercato non è successo niente: le elezioni sono andate alla virgola come dovevano andare, adesso c’è “il presidente” che si chiama Giorgia, c’è l’ex capo di gabinetto di Salvini impegnato a dimostrare l’impossibile, che al Viminale si poteva anche fare peggio. Ma la resilienza degli italiani, o per meglio dire la loro capacità di quotidianamente sbattersene delle prime pagine allarmanti del gruppo Gedi, ha finora trionfato su tutto.
Andrà così anche per l’altra sciagura di stagione? Chissà, c’è da domandarselo: gli italiani stanno affrontando per la prima volta dai tempi degli Azzurri di Vittorio Pozzo un deserto sabbioso e senza calcio. E si può stare senza governo; e si può stare senza Morandi a Sanremo; si può stare senza sapere se Moro sarebbe sopravvissuto a tre noiose serate con Bellocchio (no). Ma senza calcio? Direte di sì. Però basta guardare l’Auditel: mercoledì la partita più inutile e cimiteriale della storia del calcio, un’amichevole Albania-Italia delocalizzata a est di Otranto, è stata vista da 4.412.000 spettatori, con share del 21,57 per cento: un italiano su cinque starebbe appiccicato al canale del calcio anche se la partita fosse sospesa per neve. Novanta minuti incollati al niente pittato d’azzurro, questo siamo.
Fatto sta che i previdenti avevano cominciato a rifletterci per tempo. E durante l’estate elettoral-siccitosa, quando vorresti occuparti solo di calciomercato, la rivista Vita e Pensiero, per il numero che viene pubblicato proprio oggi, aveva chiesto anche a me di pensarci su. Quel che segue sono le riflessioni italianissime e medie sull’incipiente autunno del nostro scontento. O forse sarà del nostro resiliente “mi accontento”? E a campionato ormai sospeso, al di là della imprevedibile classifica da calci nei denti dell’Inter, qualche previsione potrebbe essere azzeccata.
Meglio pensarci prima
Il vero fatto dirompente di questo autunno-inverno per milioni di italiani – “italiani medi”, per usare il calibro dei piselli in scatola: cioè i calciofili da curva e da divano – è l’inaudita conseguenza dell’eliminazione macedone. In effetti nessuno avrebbe scommesso un bitcoin del Fantacalcio che la Nazionale campione d’Europa guidata dal profeta del bel gioco Mr. Mancini si sarebbe fatta eliminare dalla Macedonia. E invece.
Per quasi due mesi, esattamente dal 13 novembre 2022, quindicesimo turno della Serie A e ultimo prima della sospensione da Mundial, al 4 gennaio 2023, quando il Campionato riprenderà, l’Italia vivrà un pauroso blackout, sprofonderà in un angoscioso lockdown: 53 giorni senza calcio. Il vuoto abissale. L’eclissi totale di qualsiasi passione balonista si verificherà proprio mentre tutte le altre nazioni e nazionali serie del mondo si riuniranno per allenarsi, e poi disputeranno i Mondiali di calcio in Qatar. Cinquantatré giorni, quasi otto settimane, in pieno autunno-inverno, quando nemmeno si potrà stravaccarsi sotto gli ombrelloni sovranisti tanto cari a Giorgia Meloni. Senza partite. Senza campionato. Senza coppe europee. Senza la Premier da sbirciare con invidia. Senza manco quella irrimediabile scapoli-ammogliati che è la Coppa Italia. Senza nemmeno poter mandare a quel paese i Poteri Forti del Var: saranno chiusi anche i misteriosi uffici di Lissone, Brianza.
Un incubo distopico, un labirinto di angoscia che nemmeno Philip K. Dick avrebbe immaginato – del resto lui era americano, al massimo si occupava di baseball: sport di spunti narrativi ma senza tragedia e antropologicamente minore. Un autunno-inverno tetro, gelido non diremmo visto il climate change, ma smunto, orbato dei colori sociali.
A una campagna elettorale balneare si poteva sopravvivere. Almeno non c’erano i talk. Ma novembre e dicembre senza calcio, quando a San Siro già alle tre del pomeriggio scendono le prime brume, e invece dal Via del Mare il radiocronista informa “vento tiepido giornata primaverile”, quello no. A questa lessatura a fuoco lento non eravamo preparati, noi della scatola degli italiani medi. Due mesi sotto vuoto. Cinquantatré giorni di fiction della Rai, di prequel di Netflix, di talk di La7. Gli inglesi hanno sospeso senza batter ciglio la Premier per onorare il lutto di Elisabetta. Noi italiani allo stadio riusciamo a fischiare anche l’inno nazionale. Non ce la potremo fare.
Controcampo
Andrà davvero così, o è possibile rivedere l’azione da un’altra angolatura, come dicono quelli del commento tecnico? Si può immaginare un’uscita in contropiede, “un’inerzia che cambia”, un cuore gettato oltre l’ostacolo? In fondo noi italiani – non solo i piselli medi ma anche i fini e finissimi, la presunta classe dirigente – siamo gente strana. Latina, lunare, imprevedibile.
Per esempio: se fosse toccato agli inglesi o ai tedeschi saltare il Mondiale e incassare due mesi di lockdown, si sarebbero messi disciplinatamente davanti allo schermo buio, senza badare, avrebbero spillato un numero spropositato di birre e avrebbero sofferto con virile dignità. Luttuosi e nazionalisti. Noi, noi siamo più scanzonati e tribali. In fin dei conti, Maradona era italiano non perché ha giocato a Napoli, ma perché la Mano de Dios è l’unica regola (im)morale che conosciamo. Il resto ci scivola via come sabbia tra le dita. Per i 53 giorni senza calcio possiamo fare solo ipotesi, vedremo poi. Ma il paragone con l’inusitato evento della politica può fornire indizi.
La campagna elettorale sotto gli ombrelloni avrebbe dovuto causare chissà quali cataclismi, influenzare chissà come il dibattito sul voto. Invece? Gli italiani se ne sono fregati, hanno fatto le ferie e al voto hanno confermato i sondaggi degli ultimi tre anni. L’evento fuori norma che avrebbe dovuto modificare gli interessi di italiani e italiane – che so?, partecipare a un comizio anziché transumare alla sagra dell’alborella di Inverigo o a quella del peperone di Carmagnola, o almeno ascoltare il tigì spegnendo per un minuto “Techetechetè” – non ha prodotto nulla. Se c’è un fatto acclarato è che il popolo italiano, in quanto a resilienza alla politica, non lo batte nessuno. Dunque, perché per il lockdown del Mundial non dovrebbe accadere qualcosa di simile? Una distratta e strafottente capacità di adattarsi, di buttarsi con lussuria sul Black Friday anziché sulle movenze panterate di Scamacca?
Ripartenza
Certo, in questo caso il calendario non è un’opinione. Mentre per le elezioni non ha inciso di un’unghia sulla psiche e le scelte delle persone, per il “fòlber” è diverso. Non partecipare ai Mondiali, ad esempio, all’Italia è la seconda volta di fila che succede. Ma nel 2018 era estate, le notti magiche promettevano lo stesso gelati e struscio sul lungomare e un’occhiata distratta a quanto sembrava bella e occidentalissima la Russia di Putin. Poi c’era Mbappé, ah sì. Ma chissenefrega di Mbappé? Invece l’autunno-inverno, e il mitico turno di Champions che capita sempre il weekend di Sant’Ambrogio (andiamo a sciare o ci geliamo le chiappe al Meazza?) e le scommesse sull’allenatore che non mangerà il panettone… Senza, come sarà?
Il calendario non è un’opinione, ma noi italiani abbiamo più santi nel calendario che turni infrasettimanali. La fine di ottobre 2022 oltre alle foglie gialle porta con sé anche il nuovo governo. Novembre può così passare in cavalleria, per il popolo che prova a memorizzare almeno il nome di qualche ministro (“ma Draghi adesso va al Quirinale o tocca a Berlusconi?”) e con l’altro occhio cerca di capire le formazioni più interessanti in Qatar. Un po’ di toto-ministri e una spruzzata di Fantacalcio.
Poi il contesto aiuta. Ogni mattina ci sarà l’intervista agli Eroi di Spagna (spoiler: “Eh, c’era un’altra cultura, sapevamo soffrire come Pertini”) e a quelli del 2006. Un poster della Gazzetta con Pablito, e un dibattito a puntate se Messi sarà ancora decisivo. Mancini speriamo che lo lascino in pace, ma almeno uno speciale del Corriere con Sconcerti che spiega perché all’estero corrono di più non ci verrà risparmiato. Sky avrà almeno una miniserie su re Carlo e Bobby Charlton nel ’66, la Rai una replica dello sceneggiato su Pozzo, “Report” una puntatona di denuncia contro lo sfruttamento dei lavoratori in Qatar (l’hanno fatta davvero, ndr). Insomma fuffa come se piovesse, e le prime settimane passano in fretta.
Poi il 21 novembre finalmente il calcio d’inizio (conto alla rovescia del tifoso-pisello medio: - 45 alla ripresa del campionato), e per l’allenatore mancato che c’è in ciascuno di noi, per il talent scout infallibile che avremmo potuto essere, sarà meglio del calciomercato in spiaggia. Le partite, il vero football addict non le guarda mai per divertirsi, perché il calcio è bello, o per vedere chi vince. Macché. Le guarda per vedere se in Australia c’è un esterno oriundo cileno che farebbe al caso nostro, se l’Africa ha imparato a sfornare anche trequartisti o siamo fermi ai muscoli, e quanto costerebbe questo quinto di centrocampo cresciuto in Svizzera ma con passaporto ucraino. Si possono passare serate intere, sulla chat del calcetto del venerdì. E poi il tifo, che nel paese familista e tribale non può rassegnarsi alle bandiere nazionali: interisti per l’Argentina del Toro, juventini per la Serbia di Vlahovic, milanisti per Leao. Però, poiché siamo un popolo di sangue latino e di guelfi e ghibellini infingardi, terremo un pallottoliere segreto anche per i malanni e gli acciacchi dei nostri nemici (non avversari: il calcio italiano conosce solo nemici).
E il 18 dicembre arriverà in fretta, più in fretta di quanto l’Italia dei tifosi orfani possa temere. E in fondo, ironia a parte, sarà anche questo un bell’esperimento sociale, per una volta non drammatico. E’ stato un esperimento sociale anche il primo lockdown del Covid, quando gli italiani hanno scoperto la parola “resilienza” è si sono messi a sfornare pizze in casa: dopo una settimana eravamo alla nausea, servivano solo per la foto da esibire sui social e poi via nella frazione organica. Fu un esperimento sociale l’austerity del 1973, quando italiani di tutte le età scoprirono l’esistenza di quel portento meccanico che è la bicicletta e credettero, un intero inverno, che la fine dell’innocenza fosse una passeggiata. L’idea di divieto, di non accessibilità a un bene desiderato, nel nostro paese non crea cupezze o violenze: scatena invece l’atavica capacità di arrangiarsi, di costruirsi un palinsesto di vita diverso, di scansare l’ansia da privazione rimbalzando lontano la causa e gli effetti. Un evento imprevisto e dirompente sta per cadere come un meteorite sull’inverno del nostro scontento. Ma, almeno per quanto riguarda il calcio, gli italiani sapranno trasformarlo nell’autunno “del nostro mi accontento”.