Il primo Mondiale che a m'arcord - il foglio sportivo

Mondiali 1962, ossia tutto era Didì-Vavà-Pelé

Marco Pastonesi

"Non si diceva il Mondiale, non si diceva la Coppa del mondo, si diceva la Coppa Rimet, si pronunciava la Coppa Rimè, ignorando chi fosse o che cosa fosse o dove fosse quel Rimè. Era il maggio e il giugno del 1962, era in Cile, era notte da noi quando era giorno da loro, i risultati giungevano per radio"

Didì-Vavà-Pelé. Si recitava come una filastrocca, un inno, uno scioglilingua. Senza le erre di trentatré-trentini..., senza le zeta di zia-zoraide-zoticona-zuppa-zeppa-di-zizzania..., e senza la solennità di “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Ma eravamo lì.

 

Didì-Vavà-Pelé. Maglia gialla, colletto verde. Facce nere, più o meno nere, più o meno sorridenti. Didì il più serio, il più nobile, il più imperscrutabile. Vavà il più plebeo, il più strano, il più brutto. Pelé il più giovane, il più allegro, il più bravo. Brasile. Uno stato remoto, un luogo irraggiungibile, un calcio leggendario. Giocatori dell’altro mondo. Campioni del mondo in carica. Conoscerne la formazione a memoria era quasi un dovere morale. Si cominciava dal triangolo difensivo. La punteggiatura serviva a precisare i ruoli più che a dare sollievo al respiro. Gilmar; Djalma Santos, Nilton Santos. Forse fratelli, i Santos, nessuno lo sapeva con certezza. Zito, Mauro, Zozimo. E poi qui veniva il bello: Garrincha, Didì-Vavà-Pelé, Pepe. O Pepe o Zagallo. Solo per Didì-Vavà-Pelé si faceva un’eccezione e si andava tutto d’un fiato, si andava tutti d’un fiato, si andava tutti d’accordo e di corsa. Perché se il Brasile era al di sopra di qualsiasi bandiera o nazionalità, se il Brasile era l’Olimpo, quei tre regnavano la fantasia. Anche la nostra. Didì-Vavà-Pelé. Marco, Mariano e Roberto. Prima, seconda e poi anche terza elementare. Insieme. Prima la scuola, poi i compiti, e dopo a giocare a pallone. In piazzetta, ai giardinetti, al campo. Qualche volta si attraversavano i binari e ci spingevamo a Pietralata, baracche e orti, terra incolta e monnezza varia, le gomme di camion e auto da usare come pali, l’ordine di tornare a casa prima che facesse buio e, mi raccomando, attenti a quando attraversate i binari. Io tenevo al Genoa, Mariano e Roberto alla Roma. Il Genoa era una stranezza, almeno a Roma. Grazie a quei patti che si stringono e si rispettano solo da bambini, Mariano e Roberto accettarono di tenere al Genoa come seconda squadra, e io alla Roma. Nel patto, pensavo, il Genoa ci ha guadagnato, due contro uno, e di questo andavo fiero. Ma al Brasile, a Didì-Vavà-Pelé, tenevamo tutti. Erano imbattibili.

 

Didì-Vavà-Pelé. Non si diceva il Mondiale, non si diceva la Coppa del mondo, si diceva la Coppa Rimet, si pronunciava la Coppa Rimè, ignorando chi fosse o che cosa fosse o dove fosse quel Rimè. Era il maggio e il giugno del 1962, era in Cile, era notte da noi quando era giorno da loro, i risultati giungevano per radio, l’Italia pareggiò con la Germania Ovest, fu sconfitta dal Cile in una bolgia, vinse con la Svizzera, non passò il turno. Non rimaneva che tenere finalmente al Brasile e fu così che, superando l’Inghilterra ai quarti, giustiziando il Cile in semifinale e trionfando sulla Cecoslovacchia in finale, anche noi diventammo campioni del mondo. E fa niente se Pelé, infortunato, aveva lasciato la maglia numero 10 ad Amarildo. Per noi era sempre e solo Didì-Vavà-Pelé.

    


 

Qui potete leggere tutti gli altri racconti di "Il primo Mondiale che a mar'cord"

Di più su questi argomenti: