Il primo Mondiale che a m'arcord - il foglio sportivo
Mondiali 1994, ossia Roberto... e i gelati
"L’Italia di Roberto Baggio, Franco Baresi e Paolo Maldini mi riempiva d’emozione solo a pensarla. A Napoli faceva un caldo asfissiante e ancora non capivo come mai i giocatori dovessero giocare in orari assurdi, su campi verdissimi e incendiati dal sole e dall’umidità"
Cosa c’entra un Campionato del mondo di calcio con un freezer stracolmo di gelati? Estate 1994, il Marco di nove anni si appresta a vivere, finalmente con cognizione di causa – e non con i ricordi sbiaditi di una finale rubata a Maradona a Italia ’90 – un Mondiale da (aspirante) malato di pallone. Andai in edicola a comprare l’edizione speciale di Don Balòn, la celebre rivista spagnola con le rose di tutti i partecipanti (cosa che ripetei anche per il successivo Euro ’96, in Inghilterra). Ero gasatissimo: l’Italia di Roberto Baggio, Franco Baresi e Paolo Maldini mi riempiva d’emozione solo a pensarla. A Napoli faceva un caldo asfissiante e ancora non capivo come mai i giocatori dovessero giocare in orari assurdi, su campi verdissimi e incendiati dal sole e dall’umidità; crescendo ho imparato che il calcio è uno sport romantico ma che senza i soldi dei diritti tivù non si cantano gol. Ma all’epoca io tutte queste non le sapevo e, dunque, l’unica domanda che mi facevo era: riusciremo a fare gol contro la Nigeria, su questo maledetto rigore, dopo esserci inguaiati da soli contro Eire, Norvegia e Messico?
Non dimenticherò mai Baggio sul dischetto e quel pallone che bacia il palo prima di entrare. È la prima, vera, gioia sportiva della mia vita, di quelle che ti assalgono tutti i muscoli e tu non sai nemmeno perché. Il nostro Mondiale, quello strano e bastardissimo Usa ’94, iniziava in quel momento. A casa mia, io e mio padre lo capimmo subito. E lo capì un’intera nazione, che sospinta da una magia americana, con lo spot del Codino benzinaio alla tivù per un famoso marchio petrolifero, sognava di vincere per la quarta volta.
Il secondo ricordo che ti sconvolge i muscoli e ti fa gridare all’impazzata, in pieno stile italico e in linea con il cardiopalma americano di quell’estate, fu ancora più lungo della rincorsa per il rigore contro la Nigeria. Il protagonista, però, sempre lo stesso. Roberto Baggio che salta Zubizzareta, si allarga e mentre il difensore spagnolo prova il recupero, con un diagonale che è una preghiera infinita, fa gol. Io e mio padre ci abbracciamo, pazzi di gioia (uno dei pochi abbracci che ci siamo concessi nella nostra vita, ce lo ha regalato il pallone). Pizzul in telecronaca che chiama Baggio solo con il nome di battesimo, quel “Roberto”, ripetuto decine e decine di volte, diventa il secondo inno nazionale. Manca la Bulgaria e poi sarà finale.
Ma noi siamo italiani: sbruffoni spaventati, fieri di essere i migliori, ma scaramantici al punto di negarlo fino alla morte. È ancora Roberto a vincere la partita e buttare fuori la banda Stoichkov. Due perle memorabili. E ora c’è il Brasile, quello di Romario e Bebeto, uno scioglilingua da pronunciare rigorosamente in quest’ordine. E ora vi chiederete, giustamente: cosa c’entra un Campionato del mondo di calcio con un freezer stracolmo di gelati? Che per la tensione di quella partita interminabile, che finì a tarda notte, consegnando alla leggenda una sconfitta, e al cuore di Roberto il più grande rimpianto – la più grande croce, alla quale è ancora attaccato – della sua carriera, io divorai tre gelati, forse quattro. Guardai la mia Italia mondiale perdere con l’incarto di uno stecco al cioccolato, ormai finito, stretto tra le mani. Oggi Marco ha 37 anni, in mezzo ha vinto un Mondiale e un Europeo, eppure quando gli chiedete cos’è per lui l’emozione, vi risponderà sempre e solo con una parola e un numero: Usa ’94.
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