Niente più luci a...
Il culto di San Siro. Prima del suo destino si scoprano le sue origini
Demolire o no lo stadio Meazza? Sgarbi contro Sala, Inter e Milan uniti. Indagine architettonico-sentimentale sul dibattito pubblico in corso. La dissimulata fede nerazzurra di Gianni Brera, Jannacci milanista contro Gaber interista. La storia di un simbolo
Salvare San Siro? Rocco Commisso, presidente italoamericano della Fiorentina, ha fatto notare con pragmatismo anglosassone che lo stadio di Wembley, monumento del calcio inglese inaugurato nel 1923, sede della finale del Mondiale 1966 e di cinque finali di Coppa dei Campioni nonché tempio della nazionale albionica, è stato demolito senza tante storie vent’anni fa per far posto a un nuovo e modernissimo impianto. Altra mentalità, nessun Alterswert, “valore di vetustà”, coniato dallo storico dell’arte Alois Riegl in Il culto moderno dei monumenti (1903), un valore che si rivolge a tutti, dagli intenditori d’arte e alle masse. Altro non è che il “vincolo della memoria” invocato dal bellicoso neo sottosegretario Vittorio Sgarbi contro la giunta di Beppe Sala. Inutile discettare ancora di meccanismi finanziari che pretendono lo stadio di proprietà per le società calcistiche globali, liquide anche se piuttosto prive di liquidità, sparse tra l’America e l’Asia, meglio piuttosto considerare l’architettura dello stadio esistente che dà il nome a un intero quartiere.
In principio venne Siro di Pavia, primo vescovo e tuttora patrono della città, onorato di una bella tomba nel duomo bramantesco. Quindi ci fu San Siro alla Vepra, chiesetta del IX secolo che ha dato il nome all’antico borgo rurale di San Siro, attraversato dalla Vepra, canale che convogliava a Milano le acque dell’Olona – ne sopravvive l’abside rifatta con stilemi del proto-rinascimento lombardo di Guiniforte Solari (il rivale ticinese del toscanizzante Filarete), oggi accorpata a Villa Triste. Poi arrivò il borgo di San Siro lungo l’Olona di cui non resta quasi nulla dopo i grandi lavori novecenteschi per il “quadrilatero”, composto prima dalle palazzine popolari Aler e poi da molte villette disposte all’americana secondo vie curvilinee in un mix unico di residenze popolari e di lusso.
Su tutto domina la mole dello stadio, da infrastruttura assurto a incrocio simbolico delle due anime antropologiche meneghine, quella casciavit (Milan) e quella bauscia (Inter). L’edificio non è esattamente un landmark come lo Stadio dei marmi (1932) di Enrico Del Debbio a Roma né certo un capolavoro come l’Artemio Franchi (1931) progettato da Pier Luigi Nervi a Firenze, ma è una stratificazione di strutture continuamente adeguate a nuovi scopi.
Nel 1926 Piero Pirelli, figlio del fondatore Giovanni e zio di Leopoldo, costruisce a sue spese uno stadio per il Milan di cui è presidente – come nemesi la Pirelli poi sarà uno dei più longevi sponsor dell’Inter grazie a Marco Tronchetti Provera. Il primo è un tipico impianto all’inglese con quattro tribune rettilinee indipendenti in cemento armato, una delle quali parzialmente coperta con pensilina in ferro ed eternit, con una capienza totale di 35.000-40.000 spettatori. I progettisti sono l’ingegner Alberto Cugini e l’architetto fiorentino Ulisse Stacchini, autore anche della stazione centrale, del Banco Ambrosiano e del ristorante Savini in galleria Vittorio Emanuele II. Con l’aumento crescente di popolarità del calcio, il comune di Milano acquista la struttura nel 1935, subito dopo i mondiali dell’anno prima vinti dalla nazionale di Vittorio Pozzo (che gioca a San Siro la semifinale con l’Austria), e ne aumenta la capacità fino a 60.000 spettatori aggiungendo le curve e con altri adeguamenti affidati a un’altra coppia di ingegnere e architetto, Bertera e Perlasca.
Dal 1947 lo stadio ospita anche l’Inter, prima giocava all’Arena civica, oggi intitolata a Gianni Brera che dissimulava la sua fede nerazzurra proclamandosi tifoso genoano, celebre la sua maligna ironia contro l’abatino Rivera. Il secondo ampliamento, avviato nel 1954 ancora da una coppia formata dall’architetto Armando Ronca e dall’ingegnere Ferruccio Calzolari negli anni del boom mentre spopolano da un lato Benito “veleno” Lorenzi e dall’altro il trio Gre-No-Li: sfruttando le strutture preesistenti viene realizzato un secondo anello di gradinate a sbalzo che coprono le vecchie tribune, servite da una serie di rampe elicoidali di accesso esterno di notevole impatto che rinnovarono così totalmente l’immagine dell’impianto.
Gli spettatori salgono a 85.000, pochi anni dopo si aggiunge anche un impianto di illuminazione notturna mentre l’interista Adriano Celentano canta Il tuo bacio è come un rock. I favolosi anni 60 sono quelli del duello fra Alberto Rizzoli e Angelo Moratti, fra il paròn Nereo Rocco e il mago Helenio Herrera perché entrambi vincono le prime Coppe dei Campioni e Intercontinentali italiane grazie a due versioni diverse del catenaccio. Gli anni 70 invece sono meno brillanti, ma intorno allo stadio prende piede il Derby di via Monte Rosa, scoppiettante locale notturno popolato da musicisti, Jannacci milanista contro Gaber interista, e attori debuttanti, quasi tutti rossoneri, da Abatantuono, Boldi, Teocoli a Cochi & Renato e quasi tutti arruolati dalla nascente Fininvest e dal cinema commerciale.
Nel 1979 muoiono prima Nereo Rocco e pochi mesi dopo Giuseppe Meazza, campione di entrambe le squadre, e così lo stadio viene ribattezzato in onore di quest’ultimo. I milanisti come Beppe Viola, inventore della moviola per la “Domenica sportiva” nata alla Rai di corso Sempione e sceneggiatore di Romanzo popolare (1974) di Monicelli, frequentavano molto anche l’attiguo ippodromo per catastrofiche scommesse che “andavano a Lampugnano”, cioè sempre perse, non a caso il presidente dei primi tre scudetti del Milan Cricket and Football Club morì in un incidente a cavallo nel 1908: Edward Nathan Berra, parente dell’architetto della Torre Velasca, Ernesto Nathan Rogers – l’Inter nascerà un anno dopo da soci scissionisti del Milan, con un primo presidente di origini ebraico-albanesi, Giovanni Paramithiotti. In Vite vere compresa la mia (1981), pubblicato un anno prima di morire, Viola racconta che “un giorno passa di lì con in macchina la moglie Franca che in piazzale Axum alza gli occhi e dice più o meno così: ‘Ma cos’è quella costruzione orrenda?’. ‘Quella che ci dà il pane’ risponde il Beppe. Luogo di esasperato romanticismo dalle 14.30 alle 16.15 di ogni domenica, ma anche di dirompente sessualità in tutti gli altri giorni e ore della settimana, quando cioè il territorio in questione viene occupato da coppiette clandestine alla ricerca del sublime e da indomabili maratoneti in preparazione per la Stramilano”.
Subito dopo Viola, muore Vittorio Sereni, grande poeta e grandissimo interista al punto da domandarsi in Il fantasma nerazzurro se la pazza Inter non occupi una parte troppo grande dei suoi pensieri e al punto da dedicare a San Siro poesie e prose: “è bellissimo andarci di giorno, durante le ore di lavoro, e girare là intorno in quel gran vuoto e silenzio”.
Quindi nel 1986, dopo gli scandali del calcio scommesse, al Milan arrivano Silvio Berlusconi, Adriano Galliani, Arrigo Sacchi, il gioco a zona e i tre olandesi contro i tre tedeschi dell’Inter dei record del grande ex Trapattoni, piovono altre coppe e palloni d’oro nella “Milano da bere”. In vista dei Mondiali del 1990 c’è un’altra grande ristrutturazione di San Siro firmata dagli architetti Giancarlo Ragazzi, Enrico Hoffer e dall’ingegnere Leo Finzi, che riporta la capienza a 85.700 posti.
Siamo all’alba di Tangentopoli, il Psi regna ancora sovrano nella “capitale morale”. Ragazzi per tutta la vita ha lavorato per l’Edilnord di Berlusconi, dal quartiere di Brugherio a Milano 2 (“la città per i numeri uno”) oltre ai centri di produzione televisiva di Segrate e Cologno Monzese dove realizza anche la torre Mediaset alta cento metri. Viene aggiunto il terzo anello e la copertura, sostenuta da spettacolari travi reticolari metalliche rosse, è a 75 metri. Altri piccoli lavori consentono all’impianto di ospitare anche partite di rugby. Subito dopo la discesa in campo del 1994, nel 1995 all’Inter arriva l’èra di Massimo Moratti e di Ronaldo il fenomeno, durata circa vent’anni con tutto il seguito dei comici interisti antiberlusconiani di sinistra, Gino&Michele, Paolo Rossi, Michele Serra culminata col triplete di Mourinho del 2010.
Gli architetti sono divisi non solo professionalmente, anche calcisticamente: milanisti come Aldo Rossi, anche se prevalgono numericamente gli interisti come Giorgio Grassi che per la sua autobiografia non ha esitato a parafrasare la canzone di Ligabue dedicata a Oriali, Una vita da architetto (Franco Angeli, 2008). Viceversa i diavoli prevalgono fra gli editori: nell’ultimo numero della rivista pubblicata da Iperborea The Passenger, monografico su Milano, si parla solo dei presidenti milanisti come espressione di diverse ère geopolitiche della città – del resto i fratelli Biancardi sono di fede rossonera così come Luca Formenton del Saggiatore e Alberto Saibene di Hoepli. Solo Andrea Gessner di Nottetempo è dalla parte della Beneamata, tutti o quasi però sono concordi alla demolizione e sostituzione.
Secondo Nicola Russi, architetto e professore di estrazione milanista, bisogna tenere conto di quanto San Siro sia a oggi il secondo monumento milanese più visitato dai turisti, specie gli asiatici, dell’immensa popolarità, “in Italia non ce ne rendiamo conto, basta andare in un bar in Corea o a Hong Kong per trovarci appesa una sua immagine. Le comitive di giapponesi prendono la metro solo per andare a scattargli una foto ricordo. L’idea di demolirlo per ricostruirlo pensando di risparmiare e di fare meglio è tecnocratica o, meglio, è come pensare di sostituire un vecchio mobile pregiato di famiglia con un pezzo Ikea perché più moderno e pratico, un’idea provinciale, senza contare i disagi della demolizione di una montagna di cemento armato”. Tutte le comunità sono divise sullo stadio, anche la chilometrica chat degli intellettuali milanisti presieduta da Giacomo Papi: “Io sono laico, lasciare o spianare San Siro non mi pare blasfemo. Quello che noto è che è sempre pieno per cui non vedo la ratio di costruirne uno più piccolo, a meno di non alzare i prezzi, che sono già altissimi”.
Stefano Boeri, che ha la famiglia divisa (fratelli e nipoti rossoneri, figli nerazzurri come lui), da presidente della Triennale ospita il festival Milano Calcio City e il dibattito complicatissimo attuale, “San Siro è un palinsesto, ogni generazione di milanesi ha contribuito ad implementarlo, per tutta la mia vita professionale ho proposto idee per migliorarlo, organizzando eventi con Domus, rifacendo gli spogliatoi, proponendo di dividerlo con due ingressi separati, uno per il Milan e uno per l’Inter – uno in piazzale Axum, l’altro dal Trotto – tagliando i costi a metà, idea apprezzata a livello generale ma non dalle attuali proprietà. Se c’è un concorso di idee per rifarlo, da professionisti ci confrontiamo, ne abbiamo progettato uno anche noi, ricco di verde e che tenga conto del contesto di tutto il quartiere, del tunnel sotterraneo e dei parchi limitrofi. Tutto si può fare, l’importante è che ci sia una visione urbanistica più ampia, non solo finalizzata all’impianto”. Il nuovo San Siro sarà invece firmato da uno studio inglese specializzato, Populous, che ha appena aperto una sede in città.
L’Alterswert però continua ad aleggiare e minaccia di sabotare l’operazione, nonostante l’iter ormai abbia superato ogni passaggio burocratico compreso quello, solitamente arduo, della Soprintendenza. La natura sentimentale del valore di vetustà è infatti immarcescibile, direbbe Nicolò Carosio: Sandro Mazzola che ha appena compiuto ottant’anni lo ha ripetuto al Giornale radio, ancora una volta in staffetta con Rivera, con in più l’appoggio di Vasco Rossi, massimo rappresentante delle legioni di interisti di provincia. Del resto “la Scala del calcio” dagli anni Ottanta è anche il palcoscenico dei concerti più importanti d’Italia, alcuni dei quali storici come quello di Bob Marley del 1980 e poi Bruce Springsteen, U2, Michael Jackson oltre a Rossi, Laura Pausini, Negramaro. Come in Tre uomini e una gamba (1997) di Aldo, Giovanni e Giacomo, in lacrime quando parte Luci a San Siro (1971) di Roberto Vecchioni in macchina, “non ce la faccio, troppi ricordi”, come sempre di fronte alla prospettiva modernizzatrice prevale il sentimentalismo generalizzato e la tentazione della marcia indietro fuori tempo massimo: “Milano scusa stavo scherzando / Luci a San Siro non ne accenderanno più”.
Il Foglio sportivo - In corpore sano