Qatar 2022
L'inutilità di chiedere ai calciatori di farsi simboli di lotta
Il calcio si è allontanato dalla gente comune e si è chiuso in stadi sempre più elitari e comodi, anche in nome della paura degli ultras. Perché ora dovrebbero essere i paladini di lotte così distanti da loro?
Ci si riesce quasi più a raccapezzare su cosa deve essere, o cosa vogliono che sia il calcio, o meglio i calciatori. C’è chi chiede loro di prendere una posizione, di farsi modelli di lotta e di pallone, di comportamenti contro regimi brutti sporchi e cattivi, gli stessi che, spesso, tramite sponsorizzazioni, presidenze, accordi commerciali, televisivi, digitali, permettono allo stesso calcio di campare più o meno bene, più o meno opulentemente. E allora fasce arcobaleno, one love, gesti, silenzi e non assensi, parole grosse e sonanti. Calcio politico, ora, dopo anni che il calcio doveva essere calcio e basta, e calcio e basta in fondo lo era davvero diventato.
Che uno sport seguito, anche in modo viscerale, da milioni e milioni di persone potesse interessare alla politica, specie quella più autoritaria, era, è, cosa abbastanza naturale. La politica ha usato il calcio, a lungo, soprattutto quando il calcio si è espanso occupando il centro dell’interesse sportivo nazionale, e chi governava lo faceva con piglio autoritario. Il calcio però s’è fatto anche politico, è diventato palcoscenico dove ribadire e propagandare posizioni ideologiche, lotte sociali, desideri di cambiamento. Günter Grass scrisse che fu negli anni Sessanta “che il calcio si trasformò, in diversi casi e parecchio diffusi, in acceleratore del cambiamento sociale”. L’Ajax della rivoluzione di Rinus Michels, il Bayern Monaco di Udo Lattek e Dettmar Cramer, il Liverpool di Bob Paisley furono per il premio Nobel per la Letteratura “fautori di un cambiamento sociale e non solo espressione di un cambiamento che già c’era, ma che queste squadre e i loro campioni, riuscirono ad amplificare, moltiplicandone la forza persuasiva”.
Il Sessantotto iniziò nel calcio europeo qualche anno prima. I calciatori erano uomini privilegiati, giocavano a calcio e venivano pagati bene per farlo, ma erano ancora legati al contesto sociale che stava loro attorno. Il loro mondo incrociava appena quello dei tifosi, seppur non ne fosse del tutto estraneo. Il calcio stesso intersecava quello dei tifosi. I club vivevano di pubblico, di stadi pieni (e dei soldi che foraggiavano i presidenti), non di contratti pubblicitari e diritti televisivi. E questi stadi erano politici, politicizzati anche troppo in molti casi. Erano luoghi che rappresentavano, ma in modo più evidente, le stesse paure, idiosincrasie, violenze del mondo esterno. Contro cui ci si lamentava, si interveniva per reprimerle, non sempre si riusciva.
E’ parecchio diverso ora, a tal punto che certi striscioni e cori sugli spalti, certi gesti in campo non possiamo più accettarli. L’ultimo rigurgito di un mondo che era scomparso si manifestò, almeno sui campi della serie A, nei primi anni Duemila. Il pugno chiuso di Cristiano Lucarelli indirizzato ai tifosi del Livorno e il saluto romano di Paolo Di Canio verso quelli della Lazio, ci apparirono inopportuni, sconvenienti, per alcuni addirittura riprovevoli. Sicuramente staccati dalla realtà. Erano più i tempi di Socrates, Paolo Sollier, Roberto Boninsegna, l’appartenenza politica in curva era sempre più labile e sempre più caciarona e confusa, e gli stadi stessi stavano cambiando. I tifosi, quelli organizzati, non erano più risorsa, spesso erano soltanto un problema. Ultras divenne sinonimo di delinquente e meno ce ne erano meglio era. Lo stadio iniziò pian piano, ma nemmeno troppo, a trasformarsi in un luogo di visione. E visione era il calcio stesso: le partite le si potevano vedere beatamente in tv, gli stadi “divennero un luogo accogliente solo per persone perbene e benestanti”, disse nel 2010, con parecchio rammarico, l’ex centrocampista del Bayern Monaco, del Real Madrid e della Nazionale tedesca dell’ovest Paul Breitner.
Ci sarebbe da sperare che i calciatori tornassero a fare soltanto i calciatori, perché non c’è posto per fare altro in uno sport che è diventato un piacevole, piacevolissimo, spettacolo. Perché quell’incontro tra il mondo degli appassionati e il mondo dei calciatori non esiste più da tempo. E’ il calcio stesso che ha voluto lasciare fuori il mondo dei tifosi, tornare indietro sarebbe difficile, parecchio più complesso di indossare una fascia one love.
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