Foto Ap, via LaPresse

Qatar 2022

Il calcio non è metafora di niente

Jack O'Malley

Lionel Messi segna e scatta la solita corsa a  trovare inutili significati trascendentali ed escatologici. Basta

Anoi inglesi non la si fa mica. Ci teniamo a difendere i diritti degli oppressi, gridiamo al mondo con coraggio che il Qatar non rispetta gli omosessuali scrivendo “Rainbow” sulla fusoliera del nostro aereo e portandoci dietro uno stock di fasce arcobaleno per Harry Kane. Maledetta Fifa, però: l’omosessualità di Infantino è durata un giorno soltanto, ed ecco che il nostro coraggio è stato messo a dura prova dalla minaccia di un’ammonizione. Ma come ho detto, a noi non la si fa. Non ci fate indossare la fascia arcobaleno “One Love”? E allora il nostro capitano entra in campo nel preriscaldamento indossando un Rolex Arcobaleno da 650mila dollari in sostegno alla comunità Lgbtqia+. Mica un Rolex qualsiasi, però, un Rolex molto impegnato nella lotta contro le discriminazioni, in oro rosa 18 carati, con ben 36 zaffiri arcobaleno taglio baguette sulla ghiera, 56 diamanti taglio brillante sulla cassa e 11 zaffiri arcobaleno taglio baguette per indicare le ore. Sospiro di sollievo dei gay di tutto il mondo, in particolari di quelli in Qatar: dopo avere visto il Rolex arcobaleno di Kane è sicuro che le autorità dei paesi arabi smetteranno di perseguitarli. Io davvero non lo so perché siamo i più coglioni di tutti, persino i tedeschi, dopo le manfrine della mano davanti alla bocca, alla seconda partita hanno detto “adesso basta, giochiamo”. L’attivismo progressista che usa il calcio fingendo di occuparsi dei diritti soltanto per vendere altri prodotti è più insopportabile delle telecronache della Rai che sono costretto a sorbirmi per potere scrivere le mie cazzate sul Foglio. Nella classifica del fastidio, i paraculi pro-diritti vengono subito prima dei fan di Leo Messi, gente che mi fa venire voglia di chiudermi in una cantina a bere vino e dormire.

   

Non mi riferisco soltanto a Lele Adani, ormai macchietta di se stesso che parla, urla e si agita soltanto in favore di social network (mica scemo il ragazzo), ma di tutti quelli che dopo il 2-0 dell’Argentina al Messico ci hanno fatto due palle così sull’anima di Maradona che benedice dal cielo il sinistro di Messi, el mas grande che decide la partita quando non si poteva più decidere (e poi pare andrà a svernare a Miami, a fare il giocoliere tra le pippe americane). Soprattutto, si sono messi a raccontarci la storia della Pulce per la duecentocinquantesima volta. La sua timidezza, lui che era il più piccolo di tutti, la fidanzatina che oggi è la sua compagna, lui che arriva a Barcellona, lui che non parla spagnolo ma il dialetto del suo quartiere, lui che vomita in campo durante la finale del 2014 contro la Germania per il peso che porta sulle spalle di dovere essere all’altezza di Maradona (rieccolo), lui che vince la Copa America contro tutto e tutti (ma chi?).

 

Da Aldo Cazzullo (e chi se no) in su, da due giorni tutti riciclano cose risapute e insistono con quello che secondo me è il più grande male giornalistico del XXI secolo dopo i fact-checking di Open e le battute di Beppe Severgnini: raccontare qualunque gesto, risultato, avvenimento sportivo con il tono dell’epica, le lacrime, il destino, l’impresa, il titanismo scemo. Fateci caso, nella narrazione corrente una partita di calcio raramente è una partita di calcio e basta, quasi sempre è metafora di qualcos’altro, transcendentale ed escatologico. Eppure a me l’unica metafora che viene in mente in questi casi è quella delle mie palle che si rompono.

Di più su questi argomenti: