qatar 2022 - facce da mondiale
L'educazione ciclistica di Hervé Renard
L'allenatore dell'Arabia Saudita non è solo un grande appassionato di ciclismo, ma ha creato il suo calcio applicando al campo di gioco alcune tattiche di corsa. Cosa ha insegnato la bicicletta al tecnico francese
Per uno che è nato ad Aix-les-Bains – regione dell'Alvernia-Rodano-Alpi, dipartimento della Savoia –, sotto il Mont Revard e con il Col du Galibier che si intravede al di là della valle, il ciclismo è qualcosa di più di uno sport di cui si è sentito parlare e basta. È qualcosa di naturale, tanto quanto il sole che si tuffa tra i monti e si specchia sulla superficie del Lac du Bouget, per brevità Grand Lac e basta. Ad Aix-les-Bains il Tour de France ha fatto tappa per quattordici volte, c'è passato molte di più, le gare stagionali sono molte, le biciclette che girano nelle vicinanze esponenzialmente maggiori.
Hervé Renard è partito da Aix-les-Bains, ha scelto ciò che gli veniva meglio, giocare a calcio, non quello che avrebbe voluto fare, il corridore. È partito da Aix-les-Bains e ha seguito la naturale via calcistica che porta alle coste del Mediterraneo, in questo caso Costa Azzurra. Va sempre, o quasi, così, o quantomeno andava, per chi era nato tra valli alpine: si prende la rotta del mare, lì dove anche i sogni calcistici seguono le onde che approdano sulla riva. Hervé Renard finì a Cannes, con Les dragons si tolse la soddisfazione di giocare due anni in Division 1, ora League 1, poi si barcamenò tra D2 e D3 al Stade de Vallauris, prima di chiudere la carriera allo Sporting Club de Draguignan. Era mica un campione Hervé Renard, al massimo, per sua ammissione, “un difensore più motivato che bravo”.
Divenne allenatore perché il presidente del SC Draguignan aveva pensato che piuttosto di avere due stipendi da pagare a libro paga era meglio averne solo uno, anche perché quel difensore centrale, pensò, aveva il piglio giusto per fare meno danni di quanti ne avevano fatti i precedenti allenatori. Era la stagione 1998-1999 e una delle prime cose che disse ai suoi uomini fu che la squadra, la sua squadra, doveva fare niente più e niente meno che quello che faceva la Saeco con Mario Cipollini. In poche parole: coordinamento, cooperazione e sincronia. Aveva nessuno sprinter in squadra paragonabile al Re Leone, ma i risultati arrivarono e gli attaccanti non si fecero mancare i gol.
Giocava bene il SC Draguignan, all'attacco, con la difesa altissima e con calciatori che si coprivano le spalle tra loro allo stesso modo nel quale i gregari cercano di tagliare il vento ai compagni nel preparare una volata. E giocava bene a tal punto che si iniziò pure a dirlo, nei bar e tra amici, e di bocca in bocca la voce arrivò sino alle orecchie di Claude Le Roy, che più che un allenatore, all'epoca, sul finire degli anni Novanta, era un santone, un predicatore ed evangelizzatore calcistico. Aveva iniziato a Riad, quando ancora l'Arabia Saudita non pagava in petroldollari, poi s'era addentrato in Camerun e Senegal, era finito in Malaysia, poi al Milan come osservatore e al Paris Saint-Germain come direttore tecnico, prima che il suo mal d'Africa lo riprendesse al suo grande amore e lo riconducesse in Camerun. Ci riprovò a far la vita tranquilla: durò un anno a Strasburgo, poi iniziò a rigirare il mondo: “Ho una sola vita, ho sempre avuto voglia di conoscere il mondo: fortuna che a pallone si gioca ovunque”.
Claude Le Roy si incuriosì di quell'allenatore che parlava di calcio e ciclismo, che applicava al calcio i principi del ciclismo, che ogni tanto portava fuori in bicicletta i suoi uomini e diceva loro che potevano ritenersi fortunati a correre per novanta minuti invece di dover pedalare centinaia e centinaia di chilometri. Dopo aver visto giocare il SC Draguignan aspettò Hervé Renard fuori dallo stadio e, come si confà a un evangelizzatore gli disse di seguirlo. Finirono a Cambridge. Una stagione, poi il maestro disse all'allievo che era pronto per esplorare anche lui il mondo. Gli aveva insegnato tutto, l'aveva contagiato con il suo mal d'Africa: finì prima in Vietnam, poi al Cherbourg, che è Normandia quindi altro dalla Francia. Infine l'Africa arrivò davvero: la Nazionale dello Zambia, dell'Angola, l'Usm Algeri, poi ancora Zambia, Costa d'Avorio, Marocco. Due Coppe d'Africa vinte (una con lo Zambia, l'altra con la Costa d'Avorio) e sempre allo stesso modo, parlando di calcio e di ciclismo come fossero la stessa cosa: il meglio della vita.
Nel 2015, alla guida del Lille disse: “Il calcio è come il ciclismo, ci sono giornate difficili, bisogna saperle superare al meglio. E quando finisce bene, siamo così felici che dimentichiamo le difficoltà”. Durò pochi mesi, a novembre gli diedero il ben servito: “Peccato, speravo di rimanere un po' di più, non ho nemmeno iniziato a familiarizzare con il pavé che è già finito tutto. Avevo un appuntamento ad aprile con la Roubaix che forse perderò”.
Otto anni dopo non ha perso l'appuntamento con il Mondiale. All'esordio in Qatar si è preso il lusso di battere l'Argentina. E l'ha fatto allo stesso modo di sempre: difesa alta, fuorigioco e calciatori che si coprivano le spalle tra loro allo stesso modo nel quale i gregari cercano di tagliare il vento ai compagni nel preparare una volata. Ha commentato a bein Sports: “Per capire quello che abbiamo fatto, pensate ad un ciclista dilettante che ha la possibilità di prendere il via in una grande classica al fianco di van Aert, van der Poel e Pogacar. Beh, noi non solo siamo partiti con loro, ma abbiamo anche tagliato il traguardo da vincitori...”. Non aveva tutti i torti.
È andata peggio la seconda partita: sconfitta contro la Polonia, non demeritando. Poco male. Hervé Renard sa benissimo che un Mondiale è una corsa a tappe, anche se non una di quelle da tre settimane come Tour de France o il Giro d'Italia. Un Criterium International o una Tre giorni di LaPanne: tre tappe, una classifica generale, la possibilità di vincere anche con una battuta a vuoto.