Il Foglio sportivo
“Il mio basket tra futurismo e jazz”. Intervista a Massimiliano Finazzer Flory
L'attore e tifoso ci racconta la sua pallacanestro, dall'Olimpia alla Nazionale azzurra: “Me ne sono innamorato inseguendo libertà e identità. Ha questa magia in cui il gesto tecnico è sospeso tra cielo e terra”
È stato in viaggio con Virgilio, si è trasformato nell’orecchio di Beethoven, ha letto Dante come pochi altri, si è travestito da Leonardo per raccontare il suo genio. Se però chiedete a Massimiliano Finazzer Flory, attore e regista, già assessore alla Cultura di Milano con Letizia Moratti sindaca e Ambrogino d’oro, quale è stato il grande amore della sua vita vi risponderà che lui è innamorato pazzo del basket. E dell’Olimpia.
Vi sarà capitato di vederlo in tv a bordo campo quando gioca Milano. È quel signore distinto con i capelli bianchi che si trasforma in ultrà della sua squadra del cuore. In pochi tifano come lui e suo figlio. Si arrabbia pure con chi di fianco a loro non sostiene abbastanza la squadra. È un capo popolo in giacca e cravatta che al palazzo toglie la cravatta e indossa la sciarpa dell’Olimpia e sotto la giacca mette spesso pure la maglietta rossa. Cosa che qualche volta in trasferta lo ha messo nei guai. Fa il tifo allo stesso modo anche quando gioca la Nazionale azzurra che ama follemente come la sua Olimpia.
“Il mio innamoramento per il basket nasce su due temi: l’identità e la libertà – racconta – Mi innamoro del basket americano attraverso Dan Peterson e quindi anelo alla libertà attraverso il basket Nba, ma il basket per me che sono nato a Monfalcone, sul confine, è anche identità perché giocare a basket al campetto voleva dire giocare sempre contro la Jugoslavia, ogni giorno era un’Italia-Jugoslavia, una battaglia per l’identità e gli slavi erano il basket europeo. Così avevo da una parte il modello Nba attraverso la tv e dall’altra la sfida al campetto nel nome dei nostri colori”.
Fatelo parlare di basket e Massimo Finazzer Flory vi sommergerà con la sua passione. “Il basket è sospeso tra il cielo e la terra, ha questa magia in cui il gesto tecnico è sospeso tra cielo e terra… quando giocavo amavo il rimbalzo perché nel rimbalzo ci vedo qualcosa di thriller, la palla rimbalza e non si sa che cosa succede, certamente qualcosa di emozionante”. Per lui il basket non è solo uno sport. Il basket è tante cose tutte assieme. È politica, è arte, è scienza, è musica, è danza. E alla fine è anche amore. “Il basket lo considero sul piano politico: è integrazione razziale – aggiunge – In anni non sospetti non c’era sport che integrava tanti diversi colori della pelle quanto il basket. Credo che sia l’unico sport in cui un bianco desidera essere nero. Diciamoci la verità tutti noi vicini ai sessant’anni abbiamo sognato di essere Julius Erving, il mitico DoctorJ, anche con i suoi capelli ricci, ci sarebbe bastato saltare come lui”. E nessuno faceva certo caso al colore della sua pelle. Come è stato poi con Magic, Jordan e oggi con LeBron. Campioni assoluti, senza colore.
“Ma il basket è anche arte – continua Finazzer Flory – Basta prendersi delle opere di Boccioni, guardarsi la Città che sale e vedere altre opere futuriste per capire che quella pittura, quella verticalità, quell’energia in movimento sono il il basket che però ha anche un’altra dimensione, quella del jazz perché è una ricomposizione del tempo. Il basket gioca con il tempo. E poi il basket è anche scienza. La faccia del basket oggi è la statistica che è un ramo della matematica. Quindi il basket è scienza è musica è politica, è arte, ma alla fine è anche danza perché i tre passi di un giocatore marcato sono un’azione coreografica e anche tecnica. Non può farne quattro, potrebbe non bastartene farne uno e mezzo… c’è tutta una danza dentro dei tempi”.
Se gioca l’Olimpia lui non recita. Se gioca l’Olimpia lui è lì in prima fila. “Io sono malato di basket, pianifico la mia agenda professionale, tra lezioni, spettacoli, film, sulle partite dell’Olimpia. Un amore che nasce quando avevo 11 anni e mi portarono a vedere una partita a Gorizia. Di basket sapevo poco o niente. Ero un cavaliere, facevo equitazione. Quella partita la ricordo perfettamente: Varese contro Gorizia, MobilGirgi contro Pagnossin. Una partita combattuta con il palazzetto pieno. Gorizia ha 40 mila abitanti e ne portava 5 mila a vedere il basket: è come se Milano portasse 120 mila spettatori al basket. È una partita combattuta, siamo avanti di un punto, ma a pochi secondi dalla fine proprio davanti a me Charlie Yelverton si alza e morbidamente all’ultimo secondo segna. Io a quel punto non sapevo se piangere per la sconfitta della mia squadra o se ridere. Scelsi la commozione. E da allora ho scelto il basket. Ancora oggi che lo racconto sono scioccato perché il basket è esattamente questo. In un secondo può cambiare la partita”. Quel secondo ha cambiato la vita del bambino che voleva diventare cavaliere.
“Sono diventato tifoso di Milano per due vie. Una ancora una volta goriziana perché a Milano arriva un mio amico con cui mi allenavo: Roberto Premier. Lo adoravo, era il mio punto di riferimento perché giocavo un po’ nel suo stesso ruolo nelle giovanili. Io lo seguo a Milano per vedere una squadra che già guardavo in tv quando giocava in Europa. Per seguire Roberto ho cominciato a venire a Milano e poi a metà degli anni Novanta sono diventato milanese. Adesso sono più di vent’anni che non mi perdo una partita. Ho fatto un po’ di Palalido, poi non ho perso una sfida ad Assago. So vita, morte e pochi miracoli del Forum”. Ma una cosa è avere simpatia per una squadra, diventarne tifoso. Un’altra è trasformarsi in un ultras: “C’è una partita in cui decido di diventare un ultras di Milano. Dopo Gorizia mi innamoro del basket, ma dopo una partita al Forum divento ultrà di Milano. È la famosa partita contro la Fortitudo in cui perdiamo lo scudetto all’ultimo secondo nel 2005. Douglas si alza proprio davanti a me e segna il canestro scudetto. In quel momento capisco che Milano ha bisogno di un pubblico che faccia da sesto giocatore. Chi viene al palazzetto e non tifa è meglio che stia davanti alla radio, alla tv. Non abbiamo bisogno di chi viene al palazzo e non tifa. Meglio vada al golf, si dedichi ad altri sport. Al palazzo devi essere il sesto giocatore. Si gioca in sei e non in cinque. Milano ogni tanto gioca in quattro e poi diventa difficile”.
Milano è una piazza abituata bene. Dal Simmenthal di Rubini, al Billy di Peterson. A Milano piace vincere e innamorarsi dei suoi giocatori. “A Milano diventa idolo il giocatore servitore. Il Mordente o il Cerella di quella Milano battuta da Bologna. Chi si sbuccia ginocchia e gomiti, si prende la maglia e la mostra al pubblico diventa un idolo. Non a caso l’ultimo esempio è stato il Chacho che è stato più milanese di tanti milanesi. Ci manca un giocatore che rappresenta la gente. Non il più bravo, non necessariamente il campione, ma il gregario che si collega a tutti noi spettatori”. Ci stanno provando Melli, Datome, Ricci, Baldasso. Hanno l’anima per farcela.
Il basket è passione, tifo, ma anche lavoro. Prima le mostre sull’Nba, poi il docufilm su Sandro Gamba che è già stato premiato. Il percorso artistico parte da lontano, addirittura da New York: “Ho visto giocare Michael Jordan al Madison Square Garden, ma poi la svolta è stata l’incontro con Spike Lee, il grande cineasta che si alza in piedi e fa baruffa con Pippen. Mi piace la scena di Spike Lee che litiga con il giocatore che offende i suoi Knicks. Io mi sento molto così, guai a offendere la mia Olimpia. Io e Spike siamo innamorati oltre che del basket di una persona, di Giorgio Armani. Leo Dell’Orco è un santo, ma per Giorgio è proprio amore… Così ho convinto Spike a venire in Italia a vedere l’Olimpia. Peccato che quando arriva spostano il match a Desio… Immaginatevi noi due spersi nella nebbia, magari temeva anche un sequestro, una partita brutta in un palazzetto orrendo. Però dopo la partita Spike entra in auto e mi dice: non mi sono mai divertito tanto, voi siete pazzi, mi avete fatto ritrovare il basket della mia infanzia sporco, duro con gente che ci crede”.
“Io amo Spike Lee e il suo cinema e a un certo punto mi chiedo: ma in Europa non c’è nessuno che possa portare il nostro amato basket un volto e una voce artistica? Comincio a ragionarci, entro in contatto con la Nba che mi capisce subito. Così mi invento un progetto, la Digital Exhibition rimettendo in movimento la memoria degli archivi Nba. Insieme a mio figlio Francesco ne creiamo quattro, siamo ufficialmente riconosciuti dalla Nba. E da lì poi aspettavo il momento per fare un film. Avevo bisogno di un personaggio che diventasse immortale. Di un film che restasse nella memoria per sempre. Sono arrivati i 90 anni di Sandro Gamba e i 40 dal trionfo di Nantes. Sandro Gamba e la sua Stella mi hanno detto subito sì, Petrucci ha sposato l’idea e così è nato ‘Un Coach come padre’”. Sarà un caso, ma il coach di Varese in quella prima partita vista a Gorizia era Sandro Gamba. Corsi e ricorsi. O meglio rimbalzi.