qatar 2022 - facce da mondiale
Anche in campo Tyler Adams si prende cura degli altri
Contrasta e imposta, accompagna e protegge. Non gli interessa essere quello che segna o che serve l’assist. Lui vuole essere essere quello che detta i tempi, che fa muovere tutti attorno a sé
C’è una cosa che Tyler Adams ha dovuto imparare alla svelta. Ed è prendersi cura degli altri. Ha iniziato fin da piccolo, quando viveva da solo con sua madre Melissa a Wappinger Falls, un agglomerato di casette dai mattoncini rossi a un centinaio di chilometri da New York. Per mettere insieme i soldi necessari per la spesa e le bollette sua mamma faceva due lavori. E ogni tanto, quando tornava a casa, si lasciava andare a un pianto disperato e liberatorio. Allora Tyler le si avvicinava, la abbracciava e le ripeteva di non aver paura, perché tutto si sarebbe aggiustato.
Il calcio era entrato in casa sua praticamente subito. Suo zio era un tipo fissato per i Rangers Glasgow. Tanto che aveva chiamato in suo cane Ranger e lo aveva addestrato ad abbaiare ogni volta che qualcuno pronunciava la parola Celtic. All’epoca Tyler non era ancora monoteista. Anzi, era devoto a due religioni differenti: il soccer e il basket. E non sempre con la stessa intensità. Solo che mentre ogni gol è unico, i canestri si assomigliano un po’ tutti. Scegliere dunque non era stato difficile, anche se l’eredità della pallacanestro è ancora ben visibile nel modo in cui difende il suo rettangolo di prato e nella capacità con cui si trasforma in un centrocampista box to box.
La frase che gli aveva cambiato la vita se l’era sentita dire quando aveva all’incirca dodici anni. Mentre era a scuola un ragazzone gli si era avvicinato e gli aveva detto: "Mi chiamo Darryl Sullivan Jr. E penso che mio padre e tua madre abbiano una relazione". Tyler non l’aveva presa molto bene. Solo che l’arrabbiatura si era prima annacquata fino a diventare rassegnazione e poi era stata distillata in affetto smisurato. Perché Darryl senior era diventato suo padre. E i tre figli dell’uomo si erano tramutati nei suoi fratelli minori. La solitudine aveva lasciato spazio a un affollato idillio. Tyler finiva i compiti e badava agli altri, uno strano supereroe senza mantello ma con le scarpette bullonate. A undici anni era già entrato nel settore giovanile del Red Bull New York. E sua madre faceva avanti e indietro per portarlo agli allenamenti. Le era grato, certo, ma con lei non poteva parlare di quello che succedeva in campo. Con Darryl invece era diverso. Quell’uomo non solo seguiva il calcio, ma ne capiva anche. Ed è grazie al suo nuovo padre che Adams aveva iniziato la sua metamorfosi. Non più un giocatore offensivo che viveva nel culto di Henry, ma un centrocampista che sognava di essere Kanté. "Sono uno che apprezza i calciatori sottovalutati – ha detto a Espn – se qualcuno mi guarda non dirà mai ‘Wow, Tyler è stato il miglior giocatore in campo’. Ma se guarda a quanti palloni ho vinto, a quante transizioni ho creato e ho fermato, forse direbbe: ‘Tyler è il più prezioso". Poco a poco Adams si era trasformato in una specie di Gondrano, il cavallo di Animal Farm che non fa altro di ripetere "Lavorerò di più". Il suo modo di stare in campo aveva attinto dalle esperienze personali. Da Melissa ha imparato il valore della fatica. Da Darryl la capacità di leggere l’azione. Sempre a Espn Tyler ha raccontato che la prima cosa che fa quando rientra negli spogliatoi alla fine del primo tempo è accendere il telefono e leggere i consigli e i commenti alla partita di suo padre. Poi esegue, quasi fosse telecomandato.
Anno dopo anno New York diventa troppo piccola per uno con il suo talento. Nel 2019, a vent’anni, viene spedito all’altra Red Bull, quella di Lipsia. Ci resta tre stagioni, mostrando una crescita continua. Fino a quando in estate non passa al Leeds. Gli inizi sono difficili. "Qui i tifosi sono molto diretti e sinceri", dice. Poi però la sua prestazione contro il Liverpool spazza via ogni dubbio. "Adams è il capitano di cui la Nazionale degli Stati Uniti aveva disperatamente bisogno", titola il Time prima dell’esordio nei Mondiali.
Il campo ha mostrato perché Tyler è ubiquo. Contrasta e imposta, accompagna e protegge. Non gli interessa essere quello che segna o che serve l’assist. Lui vuole essere essere quello che detta i tempi, che fa muovere tutti gli altri attorno a sé. Il suo compimento non sta nel gesto sublime, ma nell’agonismo. "Se uno mi chiedesse la maglia all’intervallo gli darei un pugno in faccia", dice. Un’iperbole sconfessata dalla sua capacità di mantenere i nervi saldi. Prima dell’Iran un giornalista gli ha detto che non poteva sostenere la causa di quel popolo se neanche sapeva pronunciare il nome del paese di cui parlava. Lui ha risposto, cordiale e deciso al tempo stesso. Poi lo ha ringraziato: "È molto importante il modo in cui mi hai insegnato a pronunciare il nome del tuo paese". Ma d’altra parte è da tutta la vita che Adams impara alla svelta.