Qatar 2022
In Argentina non è tutto Messi quello che luccica
Chi sono i ragazzi cresciuti con il poster di Leo in camera che sognano di regalare un successo al loro eroe
Vincendo contro il Messico grazie a un gol di Messi e vincendo contro la Polonia nonostante un rigore sbagliato da Messi, l’Argentina ha dimostrato a sé stessa di aver bisogno del suo capitano, ma anche di poter andare oltre lui. Basta averlo come guida, leader silenzioso, vedere tutto come una missione: lui è l’uomo che vuole vincere questo Mondiale, l’ultimo che gioca, e che con la squadra sa usare le parole giuste per ottenere una reazione se la prima partita finisce con una sconfitta contro l’Arabia Saudita e se, vittoria dopo vittoria, sale il buonumore. L’Argentina sa che, dovesse riuscire l’impresa di finire sopra tutti, sarebbe certo per la benedizione di avere sempre un Diez che nessun altro può permettersi, ma anche perché non è l’unico punto di forza.
Spinge, alle spalle del campione, una generazione di ventenni che è cresciuta con quel mito lì e che ora, in campo, indossa la sua stessa maglia, sentendosi fortunata perché non è da tutti correre con accanto l’idolo del sé bambino. Con rispettabile interpretazione delle gerarchie, infatti, l’Argentina ha iniziato con un gol di Messi nella partita con l’Arabia Saudita, poi diventata una disfatta, ma ha anche scardinato il Messico nella seconda gara, quella della paura perché bastava un inciampo per salutare il Mondiale, sempre con un gol di Messi, che si è assunto la responsabilità di indicare la strada ai suoi discepoli in campo.
Per esempio, Enzo Fernandez ha segnato il secondo gol al Messico e se chiudi gli occhi e lo ascolti soltanto sembra proprio un gol di Messi: due, poi tre finte, con il pallone che resta fermo, il corpo che danza e l’avversario che perde l’orientamento, poi il tiro, assai decentrato, e il pallone che disegna una curva perfetta fino a infilarsi un po’ più in basso dell’incrocio dei pali. Lo ha segnato proprio Fernandez, invece, che è nato nel 2001 e che nel 2016 aveva quindici anni. Il 2016 è l’anno in cui Messi, dopo l’ennesima delusione in Coppa America con la Nazionale annunciò che non avrebbe mai più indossato la maglia albiceleste. Troppa rabbia, troppe delusioni, troppe responsabilità immeritate. E il giovanissimo Fernandez si sfogò sui social: “Come faremo a convincerti a cambiare idea? Dovremmo fermarci un momento e capire che non sei tu il responsabile della rabbia che proviamo quando perdiamo (...). Fai quello che credi, Lionel, ma per favore ripensaci”. Sei anni dopo è visibile che Leo ci ha ripensato, ma anche che Fernandez segna con lui, come lui, ricevendo proprio l’ultimo passaggio da lui.
C’è poi in rete una foto che ha tutta l’aria di essere un selfie così fugace da sembrare rubato: come se questo bambino in primo piano, con un telefono tra le mani e il suo mito di passaggio alle spalle, non abbia voluto perdere il momento e nemmeno chiedere il permesso, per non rischiare il “no”, e poi quando ti ricapita? Dietro di lui c’è un Messi serissimo, apparentemente colto di sorpresa: è una foto di un giovanissimo Julian Alvarez, allora aspirante calciatore che andava a dormire guardando il poster di Leo appeso in camera e si svegliava assicurandosi che fosse ancora lì, a proteggerlo. Il fatto che Julian Alvarez, ventiduenne del Manchester City, ma partito da Calchin, piccolissima città della regione di Cordoba, sia colui che contro la Polonia ha segnato il gol della sicurezza conferma l’idea che sia in atto un passaggio di testimone.
Alvarez ha chiuso la partita con la Polonia che era iniziata proprio con il rigore parato a Messi, ma prima di lui aveva segnato un altro giovane, stavolta ventitreenne: Alexis Mac Allister, che pur essendo figlio di chi in Nazionale faceva compagnia a Diego Armando Maradona, ha raccontato di essere rimasto con il fiato mozzato quando ha avuto la possibilità di incontrare la prima volta Messi, al quale peraltro assomiglia fisicamente. E di averlo avuto poi come grande protettore durante gli allenamenti, di fronte al gruppo. Perché Messi non lo dà sempre a vedere, a volte sembra uno troppo quieto per comandare, eppure sa farsi valere, trascina. Anche in modo semplice: Mac Allister era chiamato da tutti “Colo”, che in Argentina vuol dire ginger, zenzero. Doveva il soprannome al colore dei suoi capelli, ma ora così non lo chiama quasi più nessuno: nello spogliatoio della Nazionale, in un momento piuttosto ilare, Messi, sapendo che ad Alexis non piaceva il nomignolo, alzò la voce: “Non vuol essere chiamato ‘Colo’, quindi non chiamatelo più così”. Non un consiglio, una decisione.
Così, con questo equilibrio tra il santo in campo e i suoi discepoli intorno, sopravvive una Nazionale che era partita malissimo. Forse per questo è di nuovo in corsa l’Argentina. Perché c’è una banda di ragazzi che vuole scortare il suo idolo fino alla cima del mondo. Lo ha detto, meglio, prima di partire per il Qatar proprio Julian Alvarez: “Non so se possiamo considerarci tra i favoriti, ma sarebbe bello che la nostra Nazionale riuscisse a vincere il Mondiale. Per il popolo argentino, ma anche perché, per quello che ha fatto in carriera e per quello che ha rappresentato, credo che il calcio lo debba a Messi”.
Il Foglio sportivo - In corpore sano