Foto Ap, via LaPresse

La parabola della Germania assomiglia a quella dell'Italia

Jack O'Malley

Luis Enrique resterà ancora un filosofo di calcio e di vita? Adesso dipende dal Marocco

Povera Germania. Ma non perché è stata eliminata dal Mondiale che voleva sensibilizzare, per quello ancora devo riprendermi dalla sbronza di giovedì sera – e maledetta la loro serietà, se una volta capìto che la Spagna li stava fottendo si fossero fatti battere dalla Costa Rica sarebbe stato bellissimo. Dico povera Germania perché da ieri è già costretta a sorbirsi le lezioni dei giornalisti sportivi su come fare a riprendersi e ripartire (gli stessi che da un decennio danno consigli all’Italia, le volpi): i giovani, l’unione dello spogliatoio, il centravanti, il falso nueve o falsche neun, Flick sì, Flick no. 
Durante i miei festeggiamenti ho solo letto che i tedeschi in patria discutono del fatto non essere più i maschioni di una volta. Scrive il Guardian che a Berlino ci si chiede se “in un’epoca di confini porosi e di crescente fluidità delle idee, rimanga qualcosa come un’identità calcistica nazionale. E se sì, qual è la Germania?”. Preferisco tirare fuori una bottiglia di brandy piuttosto che la solita idea dell’occidente rincoglionito, ma se c’è qualcuno che sa farsi le domande esistenziali giuste sono proprio i tedeschi (sorvoliamo sulle risposte, però). Auguri a loro, anche se la parabola tedesca dopo la vittoria ai Mondiali assomiglia orrendamente alla vostra.

 

Brindo invece a Luis Enrique, perché la mossa da lurido figlio di puttana di giovedì sera ha scandalizzato i suoi aedi, i giornalisti come sempre pronti ad accusare gli altri di non essere all’altezza del personaggio che hanno costruito. Nell’epoca del sentiment Luis Enrique è diventato quello “che non si può non tifare” perché ha perso una figlia che era ancora bambina. Da lì il grande equivoco: orfani di nuovi guru, ne fabbrichiamo di finti in continuazione. L’allenatore spagnolo è diventato nella narrazione corrente “filosofo di calcio e di vita”, qualunque banalità dicesse veniva venduta sui media come “la lezione di Luis Enrique” (l’ultima, un suo pensierino sul fatto che dopo una sconfitta non ci si deve abbattere troppo e che bisogna imparare anche dalle avversità). Tutto questo fino a giovedì, quando ha messo in campo una squadra spenta che ha probabilmente perso apposta contro il Giappone per arrivare seconda nel girone ed evitare le più forti dagli ottavi in poi. A parte il fatto che quando si fa così poi si perde contro il Marocco, Luis Enrique ha dimostrato al mondo di essere un cinico che in fondo se ne fotte del bel gioco (che poi ottanta passaggi orizzontali siano bel gioco lo avete deciso voi, a me fa cagare). La finta sceneggiata ai giocatori e la caduta dal pero di fronte ai giornalisti a cui ha assicurato di non avere mai minimamente pensato a cosa stava succedendo in Costa Rica-Germania sono state la ciliegina sulla torta. Ben scavato, vecchio stronzo spagnolo, che goduria vedere i tuoi cantori indignati darti lezioni di fair play sui social network. Oggi cominciano gli ottavi, si fa sul serio e ci si diverte. L’Inghilterra veleggia tra lo psicodramma e la gloria, io so che vinceremo la Coppa del mondo ma confesso che me la sto facendo sotto. La bionda c’è, le pinte sono pronte, la scorta di brandy è in cantina. Chi mi ammazza?

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