Qatar 2022
Il calcio globalizzato del Marocco del mistico Walid Regragui
La Nazionale marocchina è un miscuglio ben riuscito del modo di giocare africano, francese e danubiano. Il ct in pochi mesi ha compiuto un ribaltamento della prospettiva tradizionale di vedere questo sport
Alla sommità della penisola del Ras Tleta Madari (o Cabo de Tres Forcas) – il lembo di terra che si allunga dentro il Mediterraneo a nord di Melilla – il mistico Ali al-Jamal insegnava ai suoi adepti che solo con lo studio e l’apprendimento della conoscenza e della tecnica occidentale, le sue, le loro terre – l’emirato del Marocco della dinastia degli Alawidi, ossia gran parte del Marocco, e una parte del Sahara occidentale – avrebbero potuto giungere alla prosperità e tutto il creato ottenere una pace duratura. Diceva il mistico Ali al-Jamal che la grandezza degli uomini stava nell’apprendere usanze e conoscenze diverse e distanti per arrivare a una ultra-conoscenza, una saggezza completa e onnicomprensiva, che avrebbe permesso al Marocco di elevarsi a potenza e poi a fondersi con tutte le altre in una nuova dimensione globale.
L’insegnamento del mistico Ali al-Jamal finì male, dimenticato e sostituito da quello del suo discepolo Muhammad al-Arabi al-Darqawi: i suoi insegnamenti erano troppo strambi, pericolosi sia per l’emirato che per l’ortodossia islamica.
L’insegnamento di Ali al-Jamal arrivò alle orecchie di Franco Battiato e girò parecchio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta nelle comunità islamiche, più fricchettone, di Parigi e dintorni. Finì male anche allora per l’insegnamento del mistico.
Qualcosa però è rimasto della sua lezione, anche se storpiata e decontestualizzata, forse inconsapevolmente e del tutto casualmente, in Walid Regragui. Il commissario tecnico del Marocco è uno strano e riuscitissimo mescolio della cultura marocchina ed europea. Una persona colta, dai modi gentili ma decisi, la capacità, assai rara, di farsi capire grazie a uno sguardo, a un cenno. Era così anche da calciatore: difensore, scoperto da Rudi Garcia al Corbeil-Essonnes, quando giocava nelle giovanili. Per capacità di lettura dell’azione, per abilità nel capire cosa sarebbe accaduto, per intelligenza calcistica “sarebbe potuto diventare uno tra i difensori più forti al mondo”, disse il suo ex allenatore ai tempi dell’Ajaccio Rolland Courbis, uno dei tecnici-guru del calcio francese, tanto illuminato e all’avanguardia, quanto incapace di mediazione e ondivago di carattere. Poi aggiunse: “Il suo problema non era la testa, strepitosa, erano i piedi, e i piedi non si possono educare più di tanto”.
Courbis portava con sé la convinzione che nulla di meglio ci fosse stato nella storia del calcio che il calcio danubiano, il modo di giocare di austriaci e ungheresi tra la fine degli anni Venti e la prima metà degli anni Cinquanta. Il suo calcio si innestava nella tradizione iniziata dal Wunderteam e confluito, per evoluzioni varie, nella Aranycsapat, la Grande Ungheria di Hidegkuti, Puskas e Kocsis. Riuscì mai a riproporre davvero quell’idea di calcio, ma entusiasmò comunque tifosi e giocatori.
Walid Regragui per due anni assorbì il metodo Courbis. Un metodo lasciato decantare per decenni, poi ripreso e messo in pratica in una Nazionale che non doveva essere sua, ma che sua è stata all’ultimo, dal 31 agosto del 2022. Un calcio che è globalizzazione pura, che parte dall’insegnamento europeo, dall’attenzione italiana per la gestione difensiva, dall’ossessione francese – peraltro recente – per il gioco sulle fasce; abbraccia l’atletismo e l’esuberanza del calcio africano; però in una cornice tattica post-danubiana, fondata su di una difesa a tre e mezzo (i terzini giocano molto alti e solo uno difende davvero), dove però al centro del sistema di gioco non c’è la finta punta, Hidegkuti – ossia l’attaccante centrale che si abbassa per creare il gioco offensivo, in pratica un trequartista ante litteram – ma i due centrali di centrocampo, chiamati a essere il tramite tra l’attacco e la difesa, ma soprattutto tra una fascia e l’altra. Un cambio di concezione del campo, un ribaltamento della prospettiva come quella di Ali al-Jamal. Il campo non è più verticale; non ci si classifica più per difensori, centrocampisti o attaccanti, ma si ragiona orizzontalmente: la squadra deve essere bilanciata tra fasce e centro, i giocatori devono mantenere un equilibrio da destra e sinistra. Per ora è andata bene, molto bene. Il mistico Regragui dovrà però fare i conti con il sultano Luis Enrique.