Qatar 2022
L'ultimo respiro dello Stadium 974, simbolo del paradosso di questi Mondiali
L’edizione mondiale più discussa di sempre lascia in eredità un impianto che potrà aiutare, per eterogenesi dei fini, il calcio a essere più sostenibile
Inutile immaginare paesaggi che non esistono. In Qatar mancano le colline, il miglior panorama è all’interno di un porto di una città moderna e lo Stadium 974 non è quello di Olimpia con gli spettatori in grado di visualizzare le corse dalle pendici del Monte Crono. Chi lo ha visitato forse nemmeno sa che in questo impianto, tanto futurista quanto provvisorio, si torna proprio alle origini greche del primo stadion della storia che, nei secoli, venne gradualmente trasferito a est fino a raggiungere la posizione attuale. Difficile immaginare un collegamento tra l’attuale Archea Olympia e Doha, eppure una sorte simile sembra essere nel destino dell’inventiva qatariota. L’edizione mondiale più discussa di sempre lascia in eredità un impianto che potrà aiutare, per eterogenesi dei fini, il calcio a essere più sostenibile. Paradossale dirlo per un’organizzazione che ha sperperato spazi e denari per rendere possibile l’impossibile, irrigando il deserto e portando i tifosi dentro una realtà ovattata.
La vita dello Stadium 974 è già destinata alla storia, rinchiusa dentro gli almanacchi, come il suo nome che richiamava sia i container che lo componevano sia il prefisso telefonico nazionale. Un’esistenza tanto breve quanto intensa, si parla al passato per raccontarla. Lo smantellamento è iniziato, eppure al suo interno, pochi giorni fa, si sono vissute emozioni ancora da decifrare come i due gol dell’Argentina, la doppietta di Mbappé per non dire delle due vittorie brasiliane. Proprio il poker dei verdeoro contro la Corea del Sud ha messo la parola fine alla sua esistenza. Almeno per ora. Non si sa dove sarà ricostruito: non sarà uno spostamento di poche centinaia di metri come a Olimpia, magari rinascerà a migliaia di chilometri di distanza. Ci sono molte voci sul suo destino, tra cui l’utopia più bella: diventare uno stadio itinerante che andrà in tutti paesi che ospiteranno i Mondiali nei prossimi anni.
Forse si viaggia troppo con la fantasia. Alla vigilia della Coppa del mondo si ipotizzava che, una volta smontato, potesse essere inviato, come una costruzione Lego, in altre nazioni più povere per creare una serie di stadi più piccoli. Stanno uscendo anche altre ipotesi: c’è chi dice che potrebbe essere rimontato in un altro porto, a Montevideo, per accogliere i Mondiali del 2030. Un’edizione ancora da assegnare, ma che diventerebbe un’altra storia nella storia, anche se il prefisso telefonico uruguaiano, 598, è meno melodico e con 200 container in meno. Inoltre, se non fosse per una popolazione quasi simile per numero di abitanti, ben poco accomuna il Qatar all’Uruguay: gli arabi sono tra i paesi più ricchi al mondo, i sudamericani arrancano per restare tra i primi cinquanta. Eppure, grazie alla sua struttura, lo stadio potrebbe essere davvero trasferito in Sud America, circumnavigando l’Africa, per evitare la costruzione di un nuovo impianto dall'impatto ambientale più elevato. Da lì potrebbe nuovamente essere smontato e trasferito in un'altra sede, offrendo così una soluzione versatile e sostenibile per ospitare eventi sportivi di grande portata senza soluzione di continuità. Fin qui, siamo realisti, è solo un sogno.
“Molti dicono che le utopie sono delle idiozie. Ma saranno comunque idiozie vitali”, scriveva Steiner. Come quella che ha permesso, in piena Doha, di realizzare l’unico impianto di tutti i Mondiali senza aria condizionata. Eh sì, lo Stadium 974 è stato concepito per essere ventilato in maniera naturale. Merito di un’architettura studiata per massimizzare l’investimento. Parlare di soldi è un duro ritorno alla realtà. Per far sì che si realizzi “un’eredità funzionale e misurata alle esigenze locali” come ha scritto Antonio Cunazza, divulgatore sui temi dell'architettura sportiva, lo spazio portuale verrà riutilizzato all’interno di un progetto che prevede un nuovo conglomerato urbano sul lungomare della capitale, con spazi destinati sia al commercio che alla comunità locale. Insomma, la sostenibilità va bene ma gli affari restano affari.