Il calcio è bello perché è colonialista
Se vincesse il Marocco? Sarebbe un magnifico caso di ritorno a casa, più che di riscatto. La verità è che la maggior parte dei campioni di mondi lontani gioca in Europa. Con le loro nazionali, spariscono
Il gagliardo, orgoglioso e catenacciaro Marocco di Hakimi e Ziyech sembra essere lì pronto a smentirci. Ma a guardare meglio l’eventuale vittoria – non capita, ma se capita – del 4-1-4-1 del nuovo profeta (anzi matematico) Walid Regragui non sarebbe una smentita: sarebbe l’eccezione che conferma la regola. Messa da parte, per pura noia, la retorica dei paesi arabi e africani uniti e quella del calcio di altri mondi che “finalmente”, “per la prima volta”, arriva a contendere il trofeo più ambito, e al netto di quel che accadrà nelle banlieue e nelle città di mezza Europa, resta l’evidenza innegabile che il calcio d’altri mondi ancora una volta è evaporato. Sparito. Niente Senegal, niente Camerun, sgonfiati i coreani e persino i meticolosi giapponesi, così come gli onesti podisti, li chiamerebbe Brera, di Australia, Canada e Stati Uniti. E adiós anche al fútbol andino e caraibico. Alla fine della corsa, quando il gioco si fa importante, arriva sempre la storica aristocrazia. Quella europea, più a turno uno dei due subcontinenti latinoamericani cui storia e dimensioni hanno permesso di avere una vera vita calcistica.
In Qatar abbiamo visto magnifici campioni provenienti per nascita da paesi lontani: Choupo-Moting e Anguissa, Mendy e Koulibaly; e poi Son, McKenney e Lozano: tutta gente che si fa ben volere e ben pagare nei top club europei o anche nelle serie cadette, a fare il lavoro un po’ meno pagato che gli italiani non vogliono più fare. Atleti che fanno faville anche alle coppe continentali di pertinenza. Ma appunto, quando scendono in campo ai Mondiali, fosse pure questi anomali del Qatar, anno Domini 2022, il flop è evidente. Eppure non esistono più le squadre materasso, come si diceva quando si poteva essere scorretti, e la maggior parte di quegli atleti è abituata a ritmi, gioco, schemi, stadi e pressioni mentali da grandi sfide europee. Basta fare qualche conto tra le finaliste. Solo un argentino gioca in Argentina e solo tre marocchini in Marocco; del Brasile, che pure è enorme, solo quattro. Diversi i casi di Corea e Giappone, ma lì conta anche un residuale tasso d’esotismo. E’ vero, sono solo sei anche i croati in patria, che è Europa e tra poco zona euro, ma è anche un paese di quattro milioni di abitanti.
Pure la metà dei turchi, paese in cui il calcio è ricco e seguito, gioca altrove. Insomma, i migliori giocatori di quegli alter-mondi nascono là, ma vengono prelevati per esibirsi nel calcio che conta. Perché qui ci sono i soldi (folli), certo: e c’è ovviamente qualcuno che sostiene sia tutta colpa del neoliberismo. Invece c’è dell’altro, è tutta colpa (anzi merito) di una particolare forma di colonialismo sopravvissuta ai tempi nuovi. Il calcio vero si gioca alle nostre latitudini; come il rugby si gioca nel Sei nazioni e il baseball ha la sua patria in pochi paesi eletti. Il caso del Marocco è ancora un illuminante controprova, il loro è un ritorno a casa: ben quattordici giocatori sono nati fuori dal Marocco, ma hanno scelto di giocare per il paese d’origine. Anche il caso francese è interessante, sempre in controluce: solo sei francesi giocano in patria, ma lì conta la legge del mercato e soprattutto l’organizzazione: la sola regione dell’Île-de-France, una specie di Silicon Valley della sapienza calcistica, ha esportato in Qatar ben 28 giocatori, in maggior parte non francesi ma prelevati altrove e cresciuti calcisticamente lì. Qualcosa di simile accade in Olanda e Belgio mentre l’Italia, aristocrazia coloniale assai decaduta, non fa parte nemmeno di questo club: e forse questo spiega perché poi ai Mondiali non ci arrivi più.
Non sono solo i soldi, altrimenti in Cina l’esperimento miliardario di trapiantare il soccer sarebbe riuscito, invece è fallito; altrimenti gli States dominerebbero come in altri sport e gli sceicchi del Qatar avrebbero portato Mbappé e Neymar a giocare da loro, anziché comprare mezza Parigi. E’ anche una sopravvivenza antropologica e culturale – che per pura suggestione, vade retro rompiballe woke, potremmo definire coloniale: il resto del mondo è ancora debitore delle grandi potenze del calcio. A parte il Brasile, che fa continente a sé anche per il calcio, e l’Argentina, altro paese immenso in cui il fútbol ha Dna inglese e italiano. Negli altri paesi, poveri o ricchi, il calcio è privo di radici antiche. E, ovviamente, essere anche privi di danari contribuisce a fare dell’Africa e del Sudamerica terre di saccheggio per il grande calcio che può vivere solo altrove. Il football è cosa del Vecchio mondo, o almeno di alcune sue specifiche parti. Verrà il giorno in cui un paese risorto dallo sfascio di un impero coloniale alzerà la coppa (ci riuscì l’Uruguay, però culturalmente è sempre stato un territorio d’oltremare). Ma non è oggi, e se capitasse col Marocco sarebbe un caso di emigrazione al contrario. E’ il neoliberismo del calcio, diranno. No, è più bello ancora, è un residuale, resiliente, colonialismo dello sport.