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La sceneggiatura di Francia-Marocco affidata a Bernardo Bertolucci

Gino Cervi

Come finirà la seconda semifinale del Mondiale in Qatar? Qualche indizio tra le trame di Ultimo tango a Parigi e Il tè nel deserto

Non so se a Bernardo Bertolucci piacesse il football. Di certo gli piaceva molto di meno che al suo amico Pier Paolo Pasolini, che il calcio lo aveva sempre in primo luogo praticato, da ragazzo a Bologna – "I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso" –, da giovanotto nei tornei estivi e giovanili in Friuli, con la maglia della Sas Casarsa e della Sangiovannese; e poi, da intellettuale, analizzato e interpretato come fenomeno culturale: "Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo".

 

Sarà forse stato per questo, per colmare quel gap agonistico ed esistenziale che Bertolucci insieme al suo mentore di un tempo – nel 1961, Bernardo, non appena ventenne, era stato assistente del primo film di Pier Paolo, non ancora trentenne, Accattone, e l’anno seguente, aveva realizzato il suo primo lungometraggio, La commare secca, lavorando su un soggetto e una sceneggiatura di Pasolini – un giorno accettò di organizzare una singolare partita cinecalcistica. Era il 16 marzo 1975, una domenica di fine inverno, e Bertolucci e Pasolini guidarono le rappresentative delle loro troupes cinematografiche che in quei giorni stavano girando, rispettivamente, nella Bassa parmigiana, Novecento, e, in una villa nei dintorni di Mantova, Salò, o le 120 giornate di Sodoma. A campo di gioco fu eletto un prato nel Parco della Cittadella. Ma Bertolucci truccò le carte in gioco. E, mascherati da garzoni di macchinisti, fonici ed elettricisti, convocò alcuni ragazzi della Primavera del Parma AC, tra i quali già sgambettava promettente un Carlo Ancelotti ragazzino. Vestiti con improbabili divise viola shocking, disegnate dalla costumista Gitte Magrini, i Novecento sconfissero per 5-2 i Salò. Pasolini che, a differenza di Bertolucci seduto in panchina, giocò la partita con la fascia di capitano al braccio, non la prese bene, come sempre gli succedeva quando a calcio perdeva, fosse la partita della Nazionale artisti o una sgambata coi pischelli delle periferie romane. Non bastò a consolarlo che, in fondo, poteva trattarsi di un regalo all’amico Bernardo, che quel giorno compiva trentaquattro anni. Insomma, se quell’incontro, come qualcuno sostiene, doveva servire a far rappacificare i due amici, i cui rapporti si erano assai raffreddati negli ultimi anni a seguito delle aspre critiche che Pasolini aveva espresso nei confronti di Ultimo tango a Parigi, era stato un fallimento.

    

Non so se a Bernardo Bertolucci piacesse il football, aldilà di quella beffarda partita del marzo 1975. Mi sono chiesto però che cosa sarebbe accaduto se oggi avessimo potuto affidargli la regia, e magari anche la sceneggiatura, della semifinale di Coppa del Mmondo tra Marocco e Francia. E se lui avesse attinto al repertorio di scene di due suoi grandi capolavori: Ultimo tango a Parigi, appunto, e Il tè nel deserto. In quale dei due scenari si sarebbe giocato il match decisivo per l’accesso alla finale tra Les Bleues e i Leoni dell’Atlante? Nella Parigi arancione e al contempo plumbea della stazione del metro di Bir-Hakeim, sotto le arcate del ponte sopra la Senna dove, in una memorabile sequenza di ripresa verticale-orizzontale, s’incontrano inconsapevolmente per la prima volta Paul (Marlon Brando) e Jeanne (Maria Schneider)? Oppure tra gli infiniti e mutevoli orizzonti del Sahara, scrutati con gli addolorati occhi del disamore di Kit (Debra Winger) e Port (John Malkovich)? Avrebbe la meglio l’avvolgente, sinfonico minimalismo di Ryuchi Sakamoto, o le lancinanti verticalità degli assolo di sax di Gato Barbieri? Un attempato Olivier Giroud indosserebbe uno sdrucito cappotto cammello per ipnotizzare e sedurre il proprio avversario in un’area di rigore più claustrofobica di un appartamento in riva alla Senna? E il portiere berbero Yassine Bounou avrebbe le sembianze rapinose di Belqassim, il capo touaregh che fa di Kim l’ultima conquista del suo litigioso harem oppure la risata grottesca e perturbante della portiera del condominio di rue Jules Verne? Ballerebbero i francesi il loro ultimo tango sotto i globi di luce della Salle Wagram o festeggerebbero i marocchini piantando tende nomadi nel deserto della Bastille presa come se fosse prima della Rivoluzione? Quale cielo protettivo salverebbe Port dalla febbre tifoidea, Paul dal suo autolesionistico andare contro il grilletto premuto da Jeanne e Kit, la meravigliosa Kit, dal perdersi irrimediabilmente in un albergo a Tangeri. Ma quel che più conta chi, tra Achraf Hakimi e il compagno di squadra parigino Kylian Mbappé, farebbe correre più veloce lungo la linea dell’out, come se non ci fossero limiti?

 

Con cui invece dobbiamo fare inevitabilmente i conti, come dice la voce narrante nel finale del Tè nel deserto: "Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile. Però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza neanche riuscireste a concepire la vostra vita? Forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna? Forse venti. Eppure, tutto sembra senza limite".

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