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I soprannomi in Argentina sono una cosa seria

Enrico Veronese

Dietro ogni apodos dei calciatori dell'Albiceleste si nasconde un universo privato diventato pubblico, a volte autoevidente, a volte misterioso. In ogni caso, un nuovo battesimo (calcistico)

El Músico Enzo Fernández, e già scorre davanti agli occhi una biografia filmata, per quando l’ultimo arrivato tra i titolari della Nazionale argentina terminerà la carriera. El General Nicolás Otamendi è una statua: potrebbe essere il nome di un borgo alla periferia di Buenos Aires, fondato da un militare con il senso della difesa ferrea. Altri, tenerissimi, risalgono al campetto delle cebollitas (i pulcini del calcio) o si tramandano di genitore in figlio: sono gli apodos, i soprannomi affibbiati ad ogni giocatore argentino – in generale, centro-sudamericano – e che accompagnano l’atleta lungo tutta la vita sportiva, se non oltre.

 

Più facili da ricordare per le tifoserie rispetto ai doppi nomi di battesimo, anche se Messi nelle nuove canzoni instant è sempre più “Lionel” e sempre meno la Pulga, la pulce: nickname affibbiatogli per costituzione e capacità di pungere, quando non era ancora uno dei due o tre migliori calciatori al mondo.

 

Dietro questi tag si nasconde un universo pubblico e privato, di tutta evidenza – dalle doti riversate in campo, dall’aspetto fisico o dall’origine – oppure misterioso, che rimanda alle radici: abbiamo conosciuto el Cabezón Omar Sivori e la sua testa notevole, ma il campione può anche essere Flaco, magro come Javier Pastore, o al contrario Gordo. Il più grande di tutti, prima che Pibe de Oro, era Pelusa per il nido di ricci folti e lanugginosi (ma pelouse in francese è, ironia della sorte, proprio il manto erboso di gioco). E se da Tucumán provengono i due Tucu, Roberto Pereyra e Joaquín Correa, non è infrequente la schiera dei figli di papà leggenda: Bruja e Brujita Verón, Pipa e Pipita Higuaín, Cholo e Cholito Simeone, Mono e Monito Perotti…

 

Domenica, a mezzogiorno spaccato tra La Plata e Ushuaia, una nazione intera è pronta all’appuntamento con la storia che manca da 36 anni: a rappresentarla, undici uomini grandi e grossi, o piccoli e scaltri, che diventano appena meno seri e marziali se li si considera secondo l’apodo. Come Damián Emiliano Martínez, il portiere, ovvero el Dibu. Che sarebbe dibujo, disegno, cioè quel cartone animato che amava da bambino (“Mi familia es un dibujo”) e non l’ha più abbandonato. O Nahuel el Galgo Molina, levriero da corsa lungo tutta la fascia, e Cristian Romero detto el Cuti: apparentemente senza significato, chi lo conosce bene indaga tra la sua incapacità infantile di pronunciare il proprio nome e l’abbreviazione del sostantivo che indica il lenzuolo. Detto del General (ma anche Caudillo o Mariscal), per il saluto mano alla tempia dopo i rari goal da difensore di Otamendi, a sinistra la fascia è patrimonio di Marcos Acuña: nient’altro che el Huevo, da bimbo un po’ in carne – somigliando appunto alla forma da uovo – o, più prosaicamente, perché in gara lascia “gli attributi”.

 

Nel centrocampo quadrato e privo di ali specializzate del ct Lionel Scaloni (pure Caballo o Toro quando giocava), uno come Rodrigo de Paul è passato da Máquina a Topadora (bulldozer) e ora Motorcito, motorino, per significare la sua importanza nell’ingranaggio: strano non chiamare in causa la sua tecnica, che non merita di essere schiacciata dalle doti atletiche. Analoga contraddizione, in senso inverso, per Leandro Paredes, el Heredero di Juan Román Riquelme: non proprio la stessa cosa, considerata la classe del’ex numero 10. Alexis MacAllister, rosso di capelli, diventa giocoforza el Colo – da “colorado”, tipico nickname per gli argentini ginger – anche se preferirebbe un legame agli antenati scozzesi: ma pure la chioma, in fondo, lo è. Infine, tra gli undici che inizieranno la finale, l’esplosione di Julián Álvarez è già marcata la Araña, ragno letale per le difese già da quando celebrava i primi goal nelle giovanili, imitando Spiderman.

 

Se andrà come sperano gli argentini, chissà se Messi diventerà anche lui el Diez, o el D10S, o se prevarrà la riverenza verso l’illustre predecessore: forse, davvero, non potrà mai esserlo fino in fondo. Ma aiutare la Joya Paulo Dybala, el Fideo (tagliatella) Ángel Di María, el Papu Alejandro Gómez (da papuchi, vezzeggiativo materno), el Toro Lautaro Martínez a diventare a loro volta campioni del mondo, in maniera determinante, sarebbe già un passo verso l’immortalità.

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