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È morto Sinisa Mihajlovic, un duro capace di commuoversi

Giorgio Burreddu

L'allenatore aveva 53 anni. Il calcio che gli aveva dato la fama e la gloria era diventato una fune, un appiglio a cui aggrapparsi, dopo la diagnosi della leucemia e il suo ritorno. A settembre l'ultima panchina

Sinisa Mihajlovic era dovuto nascere due volte. In una vita sola non c’era abbastanza spazio per contenere tutto quello che aveva visto, tutto quello che aveva fatto, tutto quello aveva immaginato lui. “Rivivrei ogni cosa, nello stesso modo. Anche gli sbagli. Perché non esistono vite perfette. E sarebbero pure noiose”, aveva raccontato per i suoi cinquant’anni. Ci sono esistenze che scivolano via, passano quasi senza lasciare traccia. Alcune brillano per il successo, altre restano cupe e piene di dolore. Quella di Mihajlovic è stata ogni cosa, una vita tanto piena da racchiuderne i sensi più estremi.

 

Da ragazzo aveva visto l’orrore delle bombe, la guerra fratricida, la fame e il nero dell’animo umano. Il calcio era stato il suo riscatto e il suo trionfo. La famiglia, i sei figli, uno da giovanissimo e cinque da Arianna, e una nipotina di un anno, Violante, il suo tutto. E la lealtà il suo credo. “Mi piace vivere bene, so cosa significa avere poco da mangiare. Da piccolo adoravo le banane, ma non avevamo i soldi, mia madre ne comprava una e la dovevo dividere con mio fratello. Una volta le ho detto: quando divento ricco mi compro un camion di banane e le mangio tutte da solo”. Mihajlovic era così, un uomo che non era voluto scendere a compromessi.

 

Se n’è andato a 53 anni, da giorni entrava e usciva da una clinica di Roma. Le aveva provate tutte, ma le ultime erano state ore piene di dolore. Quella malattia che aveva sconfitto una volta era tornata e da mesi, ormai, Mihajlovic ci stava combattendo. La prima volta era stato lui a rivelarlo al mondo, era il 13 luglio del 2019: “Ho la leucemia. Nessuno di noi deve pensare di essere indistruttibile. In un momento ti cambia tutto”. La notte prima dell’annuncio l’aveva trascorsa a piangere, “e ancora adesso ho le lacrime ma non sono di paura”; poi si era convinto di poterla sconfiggere la malattia, e l’aveva affrontata senza paura. Il calcio che gli aveva dato la fama e la gloria era diventato una fune, un appiglio a cui aggrapparsi. Al punto da promettere alla squadra (il Bologna, che stava allenando) che per l’inizio del campionato ci sarebbe stato. Impossibile, gli avevano detto. Ma lui, il 25 agosto, si era presentato a Verona, 14 chili in meno, la faccia scavata, le forze a zero, per la prima di campionato. “Non stavo in piedi, ma avevo fatto una promessa”.

 

A ottobre di quell’anno il trapianto di midollo e, un mese dopo, l’uscita dall’ospedale Sant’Orsola di Bologna. “Non sono un eroe. Ora parliamo di calcio. Mi sono rotto di piangere”. Libero, unico, inimitabile.

 

Portava scarpe due numeri più grandi per sembrare di più, adorava gli orologi, la moda, i profumi. I film, che mostrava ai suoi giocatori per spiegare una partita. E le citazioni: Dante, Sciascia, Che Guevara, Churchill. Un giorno, l’estate dopo la malattia, si era fermato a parlare a due giornalisti fuori dai cancelli di Casteldebole. Aveva abbassato il finestrino della sua Porsche, aveva sorriso e alzato il volume: “È serba, mi piace”. Aveva ripreso gli allenamenti, la sua normalità.

 

Poi, il 26 marzo scorso, la recidiva. Era stato lo stesso Mihajlovic a comunicarlo in un’altra conferenza stampa: “Questa malattia è molto coraggiosa se ha scelto di tornare ad affrontarmi, ma se non le è bastata la prima lezione gliene daremo un’altra”. Era stato dimesso dopo trentaquattro giorni. Lentamente anche il legame con Bologna si era allentato, fino all’esonero. Di coraggio e di paura Mihajlovic ha sempre parlato spesso. Non come un grumo di retorica. Dimostrandolo nei fatti. Sinisa ci credeva davvero: “Ai giocatori chiedo personalità, coraggio. Ci sono quelli che ce l’hanno e devi solo tirarglielo fuori, e quelli che non ce l’hanno”. Non è mai stato lieve. E lo sapeva bene. “Vengo considerato un duro, è vero. Ed è meglio se non mi fai incazzare. Ma anche uno con le palle può commuoversi”.

 

Non ha mai avuto tempo da perdere, Mihajlovic. Ed è sempre stato in anticipo. A 22 anni aveva vinto la Coppa dei Campioni con la Stella Rossa e in Italia si era guadagnato subito il suo posto. Le stagioni con la Sampdoria, la Lazio, l’Inter. Vincendo due campionati e diventando simbolo di forza. La sua specialità erano i gol su punizione: ne fece tre in una sola partita. La vita però ti viene sempre a cercare. “Mio padre faceva il camionista, è morto a 69 anni, di tumore ai polmoni. Quando se n’è andato io non c’ero. Ci penso tutti i giorni. Quando si parla di sogni non penso ad alzare una Champions League o uno scudetto. Il mio è impossibile: poter riabbracciare mio padre”.

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