Qatar 2022
Il talento del gregario Didier Deschamps
La Francia è ancora in finale dei Mondiali quattro anni dopo la vittoria in Russia, ma i giudizi sul commissario tecnico cambiano: perché tanto scetticismo nei suoi confronti?
Sono passati quattro anni e cinque mesi dal 15 luglio 2018, dal giorno nel quale la Nazionale francese vinse il suo secondo Mondiale. Un lasso temporale durante il quale molto è cambiato eppure nulla è mutato davvero. Perché nella finale della Coppa del mondo c’è ancora la Francia e sulla panchina dei transalpini c’è ancora Didier Deschamps. Ed è lì allo stesso modo di allora: da oggetto seduto non identificato, da uomo arrivato se non per caso, quantomeno per meriti altrui. I Blues d’altra parte hanno la squadra più forte, uno dei giocatori più talentuosi al mondo, Kylian Mbappé, e Didier Deschamps è come se non avesse nessun merito. Fortuna, pensano. Anche perché Inghilterra e Marocco non avevano demeritato. Applausi agli sconfitti, pochi allez ai vincitori. Insomma, se hai Mbappé…
Di grandi campioni capaci di trascinare una squadra ce ne sono stati, ce ne sono, fortunatamente, ancora. Eppure è faciloneria pensare che siano capaci di vincere da soli. Non è così: non c’è riuscito nemmeno Diego Armando Maradona. Lo riconobbe pure César Luis Menotti, non certo amico – anzi – del ct dell’Argentina che vinse il Mondiale del 1986: “Quando sento dire che Diego ha vinto la Coppa da solo mi prudono le mani. Una stronzata insopportabile. C’era una squadra attorno a lui. Forse non era la più forte, ma la più compatta sì. Far la somma della classe dei giocatori in campo è idiota, conta essere squadra: in Messico l’Argentina lo era”.
Mbappé non ha portato la Francia in finale. Così come non lo ha fatto Antoine Griezmann o Theo Hernandez. A giocarsi la Coppa del mondo la Francia c’è arrivata perché ha giocato assieme e perché il ct ha fatto in modo che accadesse questo.
Deschamps ha lo sguardo mite e i modi pacati. Urla poco, non fa lo sbruffone, ha il fare del gregario, non quello del primattore. Si capisce nemmeno che ci stia a fare nel mondo del calcio uno così. Eppure ogni volta che parla con un suo uomo quello capisce subito cosa fare e lo fa. Poche parole, pochi concetti, ma chiari, semplici, lineari.
Anche la sua Francia è così: chiara, semplice, lineare. Pochi fronzoli, costruzione del gioco pulita e libertà davanti, difesa attenta, quasi scolastica. C’è nulla di innovativo. Il compitino, verrebbe da dire. Quello che in pratica dovrebbe fare una selezione nazionale. Forse Didier Deschamps non è un allenatore sopraffino, ma è un signor commissario tecnico. Ha vinto tanto da calciatore (era l’"allenatore in campo" del primo Mondiale vinto dalla Francia), poco da allenatore: anche se quattro coppe di Francia e una Ligue 1 in nove anni tra Monaco e Olympique Marsiglia non sono così poco. Può nemmeno fregiarsi di aver riportato in Serie A la Juventus: si dimise a cinque giornate dalla fine del campionato dopo aver litigato con la società. Risultati a parte, a determinare il giudizio non positivo sulla sua carriera in panchina di club è il gioco offerto: “Banale”, scrisse L’Equipe.
Quel suo gioco “banale” lo ha portato anche in Nazionale. Le critiche che gli vengono mosse sono le stesse di allora. Eppure proprio quelle critiche, ciò che non piace è il suo punto di forza. Didier Deschamps non ha mai seguito l’idea che tanto va per la maggiore di trasformare una Nazionale in una squadra di club, ha sempre ragionato da selezionatore, ha preso quello che aveva e ha cercato di dare la forma più completa possibile. Non ha preteso che il suo credo fosse religione, lo ha plasmato a seconda di chi aveva a disposizione, dando a tutti la possibilità di giocare al meglio delle proprie capacità, limitandosi a un tiro di briglia ogni tanto. Ha fatto il gregario pure in panchina, il proscenio l’ha lasciato agli altri. E gli applausi purtroppo arrivano solo a chi sorride dal palcoscenico.
Il Foglio sportivo - In corpore sano