Marcel Proust e Jorge Luis Borges si giocano la finale dei Mondiali
L'ultima partita della Coppa del mondo in Qatar nei rigori di Céleste e don Isidro
Il pomeriggio del 18 dicembre 2022, in un angolo a lui stesso ignoto del pianeta, e che non aveva nulla a che vedere con la cella numero 273 del Casa circondariale del quartiere nord di Buenos Aires in cui era stato condannato a vivere recluso per ventun anni, il barbiere anarchico, o forse spiritista, don Isidro Parodi fu chiamato a risolvere cinque problemi, uno meno di quel che si aspettava.
Gliel’aveva chiesto la patria, intesa come Argentina, e lui, anche se erano passati ormai quasi cento anni da quando appariva come un uomo sui quaranta, sentenzioso, obeso, con la testa rasata e gli oggi singolarmente saggi, accettò. I cinque problemi da risolvere, così li aveva chiamati un curioso omino di trentacinque anni e mezzo, poco più basso del metro e settanta, vestito con una maglietta a strisce verticali bianche e azzurre e il numero 10 sulle spalle, con uno sguardo tra l’ottuso e l’agnostico e una barba rossiccia – che non era il motivo, come sulle prime aveva pensato don Isidro barbiere, di quella inaspettata visita – riguardavano, aveva detto proprio così l’omino albiceleste, una questione nazionale, anzi aveva detto Nazionale come se volesse mettere la maiuscola. Don Isidro non aveva capito nulla, ma, dopo tanti anni di reclusione prima in una cella e poi nelle pagine di un libro – che era stato scritto anni prima non si sa bene se da due o da tre o da chissà quanti altri inventori di storie fantastiche – aveva deciso che salire così, di punto in bianco, su un aereo e trasvolare dalle sponde del Rio de la Plata alle dune sul Golfo Persico non era un’idea poi così male.
Dall’altra parte del mondo, la mattina a colazione, in un Grand-Hotel affacciato su una spiaggia della Normandia, forse a Balbec, forse a Cabourg, succedeva qualcosa di simile. Un giovanotto in maglietta bleu foncé, anche quella numero 10, con un’attaccatura di capelli ortogonale e una faccia buffa da cantante-ballerino dei DOM-TOM, stava inzuppando il suo croissant in una grande tazza di latte quando si sentì apostrofare così dalla cameriera: "Oh diavoletto nero dai capelli di ghiandaia, o profonda malizia! Chissà a cosa pensava vostra madre quando vi ha fatto, perché assomigliate in tutto e per tutto a un uccello. Guarda, Marie – diceva rivolta a una collega – , non si direbbe che si lisci le piume?". Il giovanotto, con quella faccia da Salvador-de-la-Patrie, inarcò un sopracciglio, poco prima ortogonale all’attaccatura, e disse: "Come ti chiami?". "Céleste – rispose pronta la cameriera - Céleste Albaret. Ma non farti delle idee, giovanotto. Albaret è il cognome di mio marito Odilon, che fa il tassista a Parigi". "Chiamalo subito – le disse, gettando il tovagliolo ed alzandosi dal tavolo il giovanotto con la maglietta numero 10 – e digli che ci accompagni immediatamente a Charles De Gaulle: il nostro volo senza scali parte tra tre ore".
Il giorno dopo che in un tardo pomeriggio di una domenica una settimana prima di Natale, Céleste Albaret, da Balbec-Cabourg, cameriera, e don Isidro Parodi, barbiere ed ex carcerato, si trovarono l’uno di fronte all’altro. Nessuno prima di allora avrebbe potuto solo immaginare che, lontani nel tempo e nel mondo ma forse non nell’immaginazione dei romanzi, si potessero incontrare, tantomeno nel bel mezzo di uno stadio qatariota a forma di Parmigiano-Reggiano. Il tempo, prima quello regolamentare e poi quello supplementare, a furia di ricercarlo era scaduto senza che nessuna delle due squadre, in quell’artefatto giardino di sentieri che si biforcano, si decidesse a imboccare la strada che avrebbe, con un gol in più, fosse anche un autogol, messo la parola fine alle quelle finzioni dietro le quali maldestramente, da circa un mese, veniva celata la storia universale dell’infamia. A turno, l’obeso barbiere dagli occhi saggi e la cameriera alta, sottile, bella e un poco magra, a volte stanca e a volte allegra, frapposero i loro corpi tra il rettangolo vuoto, disegnato di bianco da pali e traversa, 7,32 m di larghezza e 2,44 metri di altezza, e l’imponderabile balistica di una sfera presa a pedate.
Per primo toccò a Evaristo Carriego, ma Céleste, molle e languida, calma come un lago, si mosse dalla parte di Swann e parò.
Il duca di Guermantes avanzò sul dischetto con una lentezza stupefatta e guardinga, il sorriso perfetto da buon re di fiori leggermente in cimbali. Don Isidro Parodi non si fece impressionare e con la sola forza dello sguardo deviò oltre la traversa l’oziosa punizione del duca.
Toccava adesso al noto attore Gervasio Montenegro, alto, evanescente, il profilo romantico e i lunghi baffi tinti: accennò a una finta ma a Céleste bastò dire "Ah, furbacchione, razza di brigante! Ah Molière" (del resto era il solo nome di scrittore che conoscesse, e lo applicava, con questo, una persona capace sia di scrivere delle commedie sia di recitarle) che Montenegro incespicò goffamente sulla palla.
Non volendo scendere per nessuna ragione dalla sua alta scranna di legno svedese, Madame Verdurin venne portata a braccio al centro dell’area di rigore. Appena vide che don Isidro Parodi le si avvicinava e, tirando fuori da sotto il suo berretto regolamentare da detenuto un sudicio mazzo di carte, le proponeva una mano di truco a due, Madame Verdurin, appollaiata sulla sua gruccia, simile a un uccello il cui biscotto sia stato bagnato nel vino caldo, singhiozzò di terrore e scalciò innocuamente la sfera.
Era la volta di Ireneo Funes, il Memorioso, che sul punto di calciare il rigore si ricordò di essersi dimenticato acceso il gas e tornò di corsa a casa: Celeste lo salutò con un’alzata di spalle.
Il barone Charlus appoggiò alla panchina il suo bastone da passeggio, prese una corta rincorsa, inarcò il busto con aria da smargiasso e, stringendo le labbra, rialzando i baffi e nello sguardo insinuando qualcosa di indifferente, di duro, di quasi ingiurioso, calciò un tiro teso. Che batté sul palo alla sinistra di don Isidro. Il barone girò i tacchi stizzito.
Pierre Menard, che a dispetto del nome giocava per l’Argentina, sapeva già dove avrebbe tirato, dal momento che la sua vita era tutta una riscrittura: ma la scaltra Céleste si trasformò in un mulino a vento e usò le mani come gigantesche pale. Il pallone venne sventato lontano.
Non restava che il narratore, quello che si fa chiamare Marcel da Albertine. Ma don Isidro, che sapeva il fatto suo gli preparò, con gesti lenti, una tazza di mate e un piattino di alfajores farciti di dulce de leche. Marcel convenne che erano molto meglio della tisana di tiglio e delle madeleine e gli consegno, riconoscente e remissivo, il pallone tra le mani.
Non restavano che loro, gli ultimi due, i numeri dieci.
La Pulce mise il pallone sul dischetto, senza mai alzare lo sguardo. "Che maleducato!", pensò Céleste, che all’interno di se serbava il ritmo dei ruscelli del suo paese, ai piedi delle montagne della Francia centrale. Di colpo, nel suo grande corpo magnifico e leggero riprese la circolazione. L’acqua scorreva nella trasparenza opalina della sua pelle azzurrognola. Sorrideva al sole, al sole dicembrino del Qatar, e diventava ancora più azzurra. In quel momento era davvero celeste. L’omino albiceleste, invece, che alla fine alzò lo sguardo, ne rimase incantato e mando il pallone al cielo.
Il ragazzone con la faccia di Henri Salvador col 10 in maglia bleu pensò “Adesso è fatta”. Don Isidro si sedette sulla riga bianca e resto in attesa, come il condannato attende la scarica del plotone di esecuzione.
PS – Dopo essermi consultato col Señor Jorge Luis Borges e con Monsieur Marcel Proust, illustri incantatori di storie, da cui sono state prese la maggior parte dei personaggi e delle parole di questo divertissement di fine Mondiale – in particolare a Sei problemi per don Isidro Parodi (scritto da Borges con Adolfo Bioy Casares) e da La ricerca del tempo perduto, di comune accordo abbiamo deciso che la sfera calciata da Kylian Mbappé dagli undici metri andrà dove più desiderano i lettori. Nel caso in cui don Isidro riesca con qualche artificio a non farla entrare in porta, il racconto può continuare ad libitum.