la riflessione
L'ennesima sciagurata vittoria della giustizia mediatica nel caso Juventus
Le sentenze emesse dall'opinione pubblica sono rapide, inappellabili, non conoscono contraddittorio. Eppure uno stato di diritto è tale proprio quando la pubblicità degli atti giudiziari non si trasforma in spettacolo
In pochi giorni, a furor di popolo, i dirigenti juventini sono stati accusati, processati e condannati. La società, sempre a furor di popolo, è stata multata, penalizzata, retrocessa e infine radiata. Siamo all’ennesima puntata di una giustizia mediatica che non fa sconti a nessuno.
Poco importa che la questione giuridica in questo caso sia particolarmente tecnica (per intenderci, abbiamo a che fare con contestazioni di “false comunicazioni sociali” e “manipolazione del mercato”, non proprio reati di immediata e semplice comprensione) e poco importa che vi siano non irrilevanti questioni di competenza territoriale (sulle quali, per motivi procedurali, la Procura generale presso la Corte di cassazione ha ritenuto, per ora, di non potersi soffermare). Per l’opinione pubblica, che improvvisamente annovera al suo interno non solo tifosi, ma anche esperti di diritto penale e principi contabili, si tratta di questioni di poco conto. Con quelle intercettazioni e a maggior ragione dopo le dimissioni del Consiglio di amministrazione – si sostiene anche tra gli addetti ai lavori – di cosa discutiamo?
La cosa più grave – che ormai non fa neanche più notizia – è che tutto questo sia avvenuto, per l’ennesima volta, attraverso la barbara pratica della diffusione e pubblicazione incontrollata di atti e intercettazioni telefoniche. Il tutto dato in pasto all’opinione pubblica senza alcuna remora. Quasi si trattasse una serie tv a puntate su Netflix (e non è escluso che tra qualche anno possa uscirne una), chiunque di noi ha potuto e può ancora seguire, con aggiornamenti quasi quotidiani, la pubblicazione sui principali quotidiani delle intercettazioni ritenute più interessanti, molte delle quali prive di alcuna rilevanza penale, con tanto di virgolettato. Vengono diffuse schermate dei messaggi inviati dai calciatori della Juventus all’interno di chat private e si forniscono informazioni su cosa sia stato riferito da questo o quell’indagato. E alzi la mano chi, nelle scorse settimane, non ha ricevuto sul proprio WhatsApp il documento di conclusione delle indagini preliminari (il cd. “415 bis”), nella versione non omissata neanche dei dati personali.
Lungi dal voler entrare nel merito della questione, chi ha messo piede in un’aula di giustizia sa bene quante volte intercettazioni presentate sui giornali come prove schiaccianti si siano rivelate errate o diversamente interpretabili, ma anche questo non ha alcuna importanza nell’universo parallelo della giustizia mediatica; un universo parallelo nel quale i passaggi delle intercettazioni – usati spesso come titolo per richiamare l’attenzione dei lettori – sono già le motivazioni delle sentenze di condanna. Come ha ricordato lo stesso ministro Nordio qualche giorno fa, quello che è stato concepito dal legislatore come “mezzo di ricerca della prova” diventa accertamento, definitivo, di presunte condotte illecite. Anche qui, a chi importa che tali intercettazioni siano state ascoltate solo da una delle parti in causa, che vi siano precisi divieti di pubblicazione degli atti e che, secondo la giurisprudenza, il fatto che sia venuto meno il segreto con la conclusione delle indagini preliminari non significhi affatto facoltà di pubblicazione? Una cosa è il segreto (che opera all’interno del procedimento), altra cosa è il divieto di pubblicazione (che riguarda la diffusione da parte della stampa). Ma nel far west della giustizia mediatica, si sa, i tecnicismi da legali non fanno presa.
Ma quali sono le conseguenze della gogna mediatica cui si è assistito e cui si sta ancora assistendo? E’ semplice cabaret giudiziario o qualcosa di più grave? La domanda è scontata e occorre prendere atto di come nulla, o quasi, sia cambiato anche dopo il recepimento della direttiva sulla presunzione di non colpevolezza. Possiamo seriamente sostenere che agli occhi dell’opinione pubblica – certamente meno in grado, rispetto agli addetti ai lavori, di cogliere i tecnicismi del procedimento penale (e senz’altro meno interessata a farlo) – non si sia creata una aspettativa di condanna nei confronti di chi, come i dirigenti della Juventus coinvolti nella cd. “inchiesta Prisma”, è e deve essere considerato non colpevole fino al momento in cui la sua responsabilità penale non dovesse essere provata in via definitiva? Possiamo davvero dire che gli stessi siano stati presentati agli occhi della opinione pubblica e dei giudici che li giudicheranno – ebbene sì, per quanto possa apparire strano, dei giudici li giudicheranno – come non colpevoli fino alla condanna definitiva.
Per non parlare di come tale indubbia aspettativa di condanna, già ben radicata nell’opinione pubblica, rischi poi di fare altre vittime illustri nel caso in cui (e non accade così di rado) dovesse poi non essere soddisfatta, totalmente o parzialmente: se, da un lato, la magistratura giudicante è, o quantomeno dovrebbe essere, senz’altro meno esposta al rischio di influenze esterne, dall’altro non si può negare come la sua serenità di giudizio ne possa risultare in concreto condizionata. Di qualcosa di simile si è lamentata anche la Camera penale di Torino, la quale ha fatto notare l’anomalia cui si è assistito nella fissazione delle udienze preliminari al Tribunale di Torino, a seguito di un decreto – emesso il 2 dicembre su “sollecitazione” della Procura – con il quale si è data la precedenza (anche) a quei processi “nei quali siano applicate misure cautelari reali per un valore superiore a € 50 mila o a carico di interi compendi societari con nomina di amministratore giudiziario” e a quelli “nei confronti di società sottoposte ad amministrazione straordinaria o quotate nel mercato telematico azionario”. Insomma, un “decreto Juve” che – si legge nel comunicato dei penalisti torinesi – “introduce una selezione dei criteri di priorità nella trattazione degli affari penali svincolata da norme di legge e, chiaramente, in ragione della pendenza di un noto procedimento penale che ha avuto ed ha tuttora un clamore mediatico rilevante”.
Il tema è noto e abbiamo già visto troppe vite e carriere finire nel tritacarne mediatico-giudiziario, per poi uscirne a pezzi senza possibilità di essere riabilitati agli occhi di chi – ossia sempre l’opinione pubblica – le ha prima condannate. Se vi siano, e quali siano, i possibili rimedi non è facile a dirsi. Non a caso, gli addetti ai lavori invocano spesso, nella desolante presa d’atto dell’impossibilità di arginare il fenomeno, la necessità di una sorta di autoregolamentazione da parte dei giornalisti, su cui però l’esperienza insegna come non si possa fare grande affidamento. Perché, si sa, la giustizia mediatica ha regole tutte sue, che poco hanno a vedere con quella ordinaria, al punto tale che appare fuorviante la stessa nozione di “processo mediatico”, essendosi in presenza di qualcosa che si avvicina più a un autodafé che a un processo.
Il vero, insuperabile, problema è che le due forme di giustizia – se così vogliamo definirle – non possono e non potranno mai competere agli occhi di un’opinione pubblica che aspetta risposte celeri e implacabili (a furor di popolo, appunto). La giustizia mediatica è velocissima e, per questo, in grado di soddisfare, quasi in tempo reale, la domanda di giustizia che si crea in corrispondenza di determinate vicende di cronaca. Non conosce garanzie e contraddittorio ed è in grado di affrontare con la stessa semplicità qualunque tipo di contestazione, si tratti di furto, stalking, corruzione o manipolazione del mercato. Per condannare, i suoi giudici non devono uniformarsi alla regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio (concetto sconosciuto alla giustizia show) e le sentenze sono inappellabili; se sei fortunato, potrai sperare al massimo in un lontano trafiletto che dia conto di eventuali assoluzioni intervenute a distanza di anni dai fatti. Ma a quel punto, importerà davvero a qualcuno?
Chiudo con una citazione. “La pubblicità dei giudizi penali è una preziosa conquista della civiltà moderna, cui nessuno vorrebbe menomare. L’azione della magistratura deve potersi conoscere da tutti i cittadini, a tutela dei quali è diretta. Ma sarebbe uno strano equivoco il confondere la pubblicità con lo spettacolo. La giustizia si rende per soddisfare al primo dei bisogni sociali, non per appagare la curiosità degli oziosi. L’accusato, fino a che condannato non sia, si presume innocente; è un cittadino infelice di cui non è lecito aggravare le condizioni, degradandolo a figura da scena”. E’ un passaggio di una circolare del ministero della Giustizia. Era il 1879.
avvocato, direttore della rivista Giurisprudenza penale