L'eccezionalità di Vittorio Adorni
Il vincitore del Giro d'Italia 1965 e del Mondiale 1968 è morto oggi a Parma. Aveva 85 anni, è stato molto più di un corridore
Un Giro d’Italia e un campionato nazionale, un Mondiale vinto in solitaria e con quasi dieci minuti di vantaggio sul secondo possono passare in secondo piano rispetto alla signorilità, all’eleganza e all’intelligenza del corridore. L’eccezionalità di Vittorio Adorni è sempre stata quella di essere uomo e corridore, persona senza essere personaggio, cervello e non solo gambe cuore polmoni.
Bastava un colpo d’occhio per capirlo, incrociare con lui uno sguardo. In quegli occhi chiari c’era qualcosa che è non è comune trovare, una capacità straordinaria di stare al mondo, vivere nel mondo, comprendere tutto quello che succede attorno in un baleno. È una dote rarissima, Vittorio Adorni ce l’aveva.
D’altra parte l’aveva capito anche Sergio Zavoli, uomo appassionato di sport, ma non solo di sport, uomo che sapeva come funzionava la tv, l’Italia e che spaziava come nulla fosse dalle biciclette, al pallone, alla politica, ai problemi internazionali con rara documentata precisione e sottile capacità di analisi. L’aveva scelto, aveva sempre detto che Vittorio Adorni avrebbe potuto fare ogni cosa, perché con un cervello come il suo e un saperci fare con il suo, di Adorni, si può davvero fare ogni cosa. Anche politica. Non la fece mai Vittorio Adorni, anche se finì a fare l’assessore allo Sport del Comune di Parma, ma da indipendente, da tecnico, tenne a precisare.
Sergio Zavoli lo volle al Processo alla tappa che Vittorio Adorni ancora correva e correva alla grande. Opinionista, il ruolo. Aveva opinioni Vittorio Adorni, soprattutto aveva la capacità di sintetizzare e rendere comprensibili questioni complesse: finì pure a fare il presidente del Consiglio del ciclismo professionistico, l’organismo composto da rappresentanti di squadre, corridori e organizzatori che dovrebbe trovare una mediazione tra interessi delle squadre dei ciclisti e di chi organizza le corse all’interno dell’Unione ciclistica internazionale. Durò il tempo necessario per evitare che Tour de France, Giro d’Italia e Vuelta non arrivassero allo scontro frontale con l’Uci che stava riorganizzando il ciclismo. Riuscì a mediare, a trovare una quadra ai vari interessi particolari. Anni dopo commentò che avrebbe dovuto farsi gli affari suoi, evitare di mettersi in mezzo e fare in modo che la Federazione internazionale e i grandi giri se le dessero di santa ragione, “forse avrebbero capito che il ciclismo era ancora uno sport e non un giochetto per misurare il proprio ego”.
Aveva l’intelligenza di chi sapeva mediare, soprattutto la rarissima dote di chi sa indicare la via migliore senza fare il maestrino. Anche per questo Vincenzo Giacotto lo volle alla Faema. “Quando presi Eddy Merckx ero certo di aver preso il più grande talento del ciclismo. Allo stesso tempo ero certo che Eddy avesse bisogno di una nave scuola. E allora ho preso il migliore in circolazione. Vittorio Adorni è un gran corridore, soprattutto è la testa migliore su di una bicicletta”. Era il febbraio del 1969, l’anno prima Merckx aveva vinto il Giro davanti al compagno Adorni, Adorni aveva vinto il Mondiale, ottenne un ottimo contratto alla Scic e salutò la Faema.
Avrebbe potuto vincere molto di più Vittorio Adorni, ma non l’ha fatto, perché per farlo avrebbe dovuto occuparsi solo di fare il corridore, pensare solo al ciclismo e tutto ciò non era cosa per lui. Lui osservava ogni cosa, si informava, pensava e immaginava. Anche mentre correva. E poi sintetizzò a meraviglia Gianni Brera: “Vittorio Adorni è sempre stato troppo intelligente per essere un campione”.
Vittorio Adorni si è posizionato sempre al di là dei campioni, tra i grandi uomini. È morto oggi, la vigilia di Natale, a 85 anni.