Foto Epa, via Ansa

1940-2022

È morto Pelé, l'ultimo campione che è stato un racconto

Giovanni Battistuzzi

L'attaccante brasiliano era diverso da tutti gli altri giocatori che dopo di lui hanno ambito al "titolo" di calciatore più forte della storia. Il suo calcio è stato, forse molto e soprattutto, una tradizione orale che, come ogni racconto aedico, poteva diventare iperbolico, quasi astronomico

Nel continuo e incessante bla bla bla su chi sia, sia stato, il più forte giocatore della storia del calcio per anni c'è stata una netta divisione tra chi diceva Diego Armando Maradona e chi invece sosteneva la netta superiorità di Pelé. I raffinati invece nominavano Johan Cruijff, ma sono, erano, una minoranza, nemmeno troppo rumorosa. Ora, a Mondiale conquistato, c'è chi avanza anche la candidatura di Lionel Messi, cosa che probabilmente fa ribrezzo a Cristiano Ronaldo.

 

Chi sia, fosse, il più grande calciatore di tutti i tempi è argomento particolarmente noioso, qualcuno direbbe pure inutile. Era di questa opinione Jacques Derrida, che alla domanda “chi crede sia il più grande giocatore della storia del calcio?”, rispose che gliene fregava assolutamente niente, ché di queste cose dibatteva “solo chi non ha una sega da fare”.

 

Pelé è morto all'ospedale Albert Einstein di San Paolo a 82 anni. Pelé è stato senz’altro uno di quei giocatori che col pallone ci sapeva fare ben più di altri. Quando lo si vedeva giocare appariva chiaro, lampante, che di giocatori così in giro non ce ne erano molti, anzi, ce ne erano pochissimi, quasi nessuno. Rispetto a Cruijff, Maradona e soprattutto Messi (o Cristiano Ronaldo), Pelé era diverso. E’ stato, forse molto e soprattutto, un racconto, una tradizione orale che, come ogni racconto aedico, poteva essere stiracchiato, allargato, espanso, poteva diventare iperbolico, quasi astronomico. Va così il calcio, il riferimento alle stelle è sempre dietro l’angolo, anche se ormai si è passati agli inglesismi e gli astri si sono trasformati in goat, o acronimi indefinibili.

 

Pelé non ha avuto l'esposizione mediatica dei campioni degli anni Ottanta, non ha avuto l'iperappresentazione scenica di quelli odierni. Ha calciato il pallone, ha dribblato e segnato in un calcio ancora prevalentemente dotato di parole, dove le parole, scritte o parlate, avevano un loro peso, soprattutto un loro fascino. È l'ultimo grandissimo del quale si è letto o udito più di quello che si è visto, perché si è visto poco, prevalentemente spezzoni del suo calcio, il resto è stato immaginazione. Un'elegante, atletica, tecnica immaginazione.

 

Pelé era talento ed esotismo, un soffio di meraviglia rara, quindi imperdibile, quasi mistica. I racconti delle sue gesta venivano dall'al di là dell'Oceano, da quella terra che ancora oggi noi europei facciamo fatica a capire, dove si gioca un calcio appassionante, abbagliante agli occhi, ma al quale rinunciamo sempre volentieri in nome dell'organizzazione tattica.

 

Solo quelle quattro lettere, il suo nome, Pelé, rimandava a giocate fantastiche, a dribbling raccontati, a tiri e parabole incredibili, che, a volte, si facevano beffa della fisica, come certi quadri surrealisti. Pelé era l'immaginazione del calcio, un pensiero dolce e magnifico, tanto quanto quel salto incredibile alle spalle, sopra le spalle, di Tarcisio Burgnich nella finale del Mondiale di Messico 1970. Giorni nei quali si capì che tutto quello che si era letto e sentito sul conto di Pelé era molto più verosimile di quello che si poteva credere.

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