“Il ciclismo di oggi non ha niente a che vedere con il mio”. Parla Francesco Moser
Il viaggio dai campi di Palù di Giovo alle strade del ciclismo del campione trentino. "Ai miei tempi, il giorno prima della corsa c’era la punzonatura. La gente accorreva in massa. Oggi quei momenti di festa e vicinanza sono lontani ricordi. I corridori li tengono lontani da quella confusione, che un tempo del ciclismo era il cuore pulsante"
"Eravamo dodici fratelli. Tre di noi mia madre li aveva chiamati Aldo, Giacinta e Anna Lucia, come i pastorelli delle apparizioni di Fatima. Erano andati tutti via. Tre dei sette maschi già correvano in bicicletta. Uno era in seminario, perché aveva scelto di fare il prete. Mia madre non voleva che me ne andassi anch’io. Era convinta che sarei diventato un bravo contadino. Avevo quindici anni. La campagna era stata tutta la mia vita. Grazie alle distese dei campi di granturco, eravamo cresciuti, e bene, mangiando polenta da mattina a sera”. Francesco Moser, un mondiale su strada e uno su pista, il record dell’Ora, un Giro d’Italia, tre Parigi-Roubaix, due Giri di Lombardia, una Freccia Vallone, una Milano-Sanremo, 273 vittorie da professionista, preceduto al mondo solo da Eddy Merckx e Ric Van Looy, racconta il suo straordinario viaggio dai campi immacolati di Palù di Giovo alle strade tortuose del ciclismo, che lo avrebbero reso leggenda. La più infinita, che l’Italia abbia mai coltivato e venerato, dopo Fausto Coppi e Gino Bartali.
Alla fine, dal sedile di un trattore è passato alla sella di una bicicletta?
“Ho cominciato tardi, a diciotto anni. Aldo, Enzo e Diego li guardavo correre dal vivo. Anquetil, Van Looy, Gimondi, Merckx e Motta, in televisione. Appena quattro anni dopo, mi sono ritrovato a correre contro di loro. Ricordo che la mia prima volta era una domenica di primavera e che tutto il mondo guardava il cielo o la televisione, in attesa dello sbarco di Neil Armstrong sulla Luna. Sono andato in fuga, ho forato, sono rientrato con i primi, li ho staccati in salita, sono stato ripreso e, alla fine, sono arrivato quarto allo sprint”.
Moser ha vinto e ottenuto tutto, corse, tappe, il Giro, mondiali e record, ma ha avuto un solo grande rivale, Beppe Saronni.
“Dal 1978 sino a quando ho smesso, c’è stata fra noi una disputa anche tropo accesa. Ci sono stati momenti molto difficili, con il vento che soffiava a burrasca. Quella rivalità ha spesso trasceso i limiti. Nessuno dei due mollava e pretendevamo all’unisono di aver ragione e la ragione era essere più forte dell’altro”.
Si ha ancora negli occhi l’immagine dell’ultima cronometro del Giro del 1984. Quando Moser entra da vincitore all’Arena di Verona, dopo aver spento l’ultima chance di Laurent Fignon.
“Una giornata così non si può dimenticare. Al Giro sono salito più volte sul podio finale. Ho vinto tappe, vestito un’infinità di maglie rosa, ma arrivare in fondo, prima di tutti gli altri, è un’emozione che non ha uguali. Credo sia stata la vittoria più bella. Una cosa è battere tutti nella corsa di un giorno. Un’altra al termine di tre settimane, con l’imponderabile in agguato sino alla fine. Se cadi e non ti rialzi, non c’è appello, anche se è l’ultimo giorno”.
Come è cambiato il ciclismo?
“E’ cambiata in toto l’organizzazione delle corse e delle squadre. Oggi i corridori hanno tutte le comodità e tutti i possibili supporti, ma decidono poco o nulla. Con le radioline li comandano a bacchetta e non si può sgarrare. Una volta poteva accadere che un corridore entrasse in una fuga e tirasse, anche se non doveva. Tanto non lo vedeva nessuno. Oggi devi stare sempre attento a quello che fai, perché stai pur sicuro cha c’è qualcuno che ti sta guardando”.
Anche voi, però, avevate occhi sempre puntati addosso. I tifosi, il pubblico, erano protagonisti delle corse, quasi quanto voi. C’era una parte dell’Italia che correva insieme a voi. E, come voi, saliva, scendeva, vinceva, perdeva, cadeva e sognava. Quell’immedesimazione totale e quel rapporto magico non ci sono più?
“Non voglio dire che sia necessariamente un male, ma è cambiato tutto. Ai miei tempi, il giorno prima della corsa c’era la punzonatura. La gente accorreva in massa, si faceva le foto, ti parlava, ti incitava, ti chiedeva la felicità di una vittoria condivisa. Oggi quei momenti di festa e vicinanza sono lontani ricordi. I corridori li tengono lontani da quella confusione, che un tempo del ciclismo era il cuore pulsante. Oggi è tutto in ordine. E’ tutto perfetto. E’ tutto uguale. Un tempo i gregari correvano con le gomme usate. Oggi, insieme ai corridori, parte un camion pieno di biciclette. Noi usavamo la stessa bici per quasi tutto l’anno e ce la portavamo a casa, dopo la corsa. Al massimo facevamo il cambio di mezza stagione”.
La terra, il vino e la bicicletta sono state il cerchio magico della sua vita. Francesco Moser produce un buonissimo vino. Che annata è stata?
“Abbiamo rischiato il peggio, con quel caldo anomalo. Poi è piovuto e mi dicono che è venuto su bene”.
Quale è il suo vino preferito?
“A me piace lo spumante. Il mio preferito è lo stesso da quasi quaranta anni. Ha per nome un numero, inframmezzato da una virgola: 51,151. E’ la distanza che ho percorso a Città del Messico, quando ho stabilito il record dell’Ora. Altri tempi. Stesso vino”.