Francesco Oliva nella palestra del rione Traiano

Storie di genio italiano / 6

Il riscatto degli altri ha “mille culure”. La storia di Patrizio Oliva

Michele Brambilla

Una sconfitta ingiusta e la nemesi dell’oro olimpico. Poi, smessi i guantoni, il boxeur napoletano si ricorda di altre sfortune, di altre sofferenze patite. Sono quelle dei ragazzini arruolati dai boss, che decide di togliere dalla strada

Millenovecentosettantanove. Siamo a Colonia. Il boxeur Patrizio Oliva, detto lo Sparviero, nato a Napoli il 28 gennaio 1959, si gioca il titolo europeo dei superleggeri contro il sovietico Serik Konakbayev. Vince, stravince il match, ma la giuria emette un verdetto vergognoso e attribuisce la vittoria al sovietico. Forse perché i giudici tedeschi vogliono tenersi buoni quelli russi in vista delle Olimpiadi dell’anno dopo, in programma a Mosca? Forse. Sta di fatto che la medaglia d’oro a Konakbayev e quella d’argento a Oliva passano alla storia come uno dei più grandi furti non solo del pugilato, ma di tutto lo sport. E’ uno scandalo mondiale.

“Quando premiarono il mio avversario”, racconta oggi Patrizio Oliva, “non si riuscì neppure a sentire l’inno nazionale sovietico, tanti furono i fischi che lo seppellirono. Il pubblico fermò per mezz’ora i campionati. Ed eravamo in Germania! E io non sono un tedesco, ma un italiano! Un napoletano che poteva essere un immigrato! Ma il pubblico tedesco era tutto con me. Non si era mai visto uno scippo del genere”. E c’è una foto, famosa, di Patrizio che si mette i guantoni in testa, incredulo, alla lettura del verdetto. Lo stupore prima della rabbia, e prima della reazione che siamo ora qui a raccontare. “Da quella sconfitta ho imparato che non ci si deve mai arrendere all’ingiustizia. Avrei potuto piangermi addosso, fare la vittima, mollare tutto. E invece ho pensato: io questo lo incontrerò di nuovo. Sono sicuro che lo incontrerò di nuovo”.

E siccome evidentemente esiste davvero un dio per i pugili (ricordate “Lassù qualcuno mi ama”?) Oliva non solo lo ritrova davvero, Konakbayev: ma lo ritrova anche presto, appena un anno dopo. E addirittura a casa sua, a casa sua di lui vogliamo dire: a Mosca. E nientemeno che in una finale olimpica. E lo batte. Lo batte davanti al suo pubblico, che assiste ammutolito alla discesa della Nemesi su un ring di pugilato. E così Patrizio si prende la medaglia d’oro più importante. “Il giorno dopo mi premiarono anche come miglior pugile dei Giochi olimpici, per tutte le categorie. Avevo vinto, ero felice. Ma potrei dire che sono stato felice anche per aver subìto un’ignominia come quella di un anno prima, perché mi ha fatto capire che dopo qualsiasi sconfitta bisogna sempre rialzare la guardia e ricominciare”.

Passano gli anni, Patrizio smette i guantoni, resta nel mondo della boxe come allenatore della nazionale (tuttora allena gli azzurri di quattordici anni) e si ricorda di altre sconfitte, di altre ingiustizie, di altre sfortune, di altre sofferenze patite. Pensa che debba riscattare anche quelle. E non solo per sé. “Io vengo dalle macerie della vita. Sono nato a Poggioreale, un quartiere difficile, il quartiere del carcere. Oggi è ancora più pericoloso di quando ero bambino io. Ma anche allora c’erano i boss che giravano i rioni per arruolare i ragazzini nel loro mondo. Loro fanno così: vanno dai ragazzini poveri, mettono qualche soldo nelle loro mani, gli fanno vedere che con uno scippo o un furto possono comprarsi quello che vogliono senza dover studiare e lavorare… E loro vedono i soldi facili, si illudono che la criminalità li possa rendere ricchi e felici. Invece, la criminalità li distrugge, come sanno bene i boss, i quali infatti i loro figli non li mandano sulla strada a rubare e a fare rapine: li mandano a studiare nei college americani e in quelli svizzeri. Fanno diventare criminali i figli degli altri, non i loro.

“Io avrei potuto diventare uno di quei ragazzini arruolati dai boss. Vengo infatti da una famiglia poverissima. Sette figli. Dormivamo tutti nella stessa stanza. Mio padre picchiava mia madre. Quando un mio fratello morì di tumore, a quindici anni, papà si mise a bere e diventò ancora più violento. Abbiamo passato bruttissimi momenti. “Ecco perché avrei potuto finire male anch’io. Prima sulla strada e poi chissà, in carcere o anche peggio. Ma io, e tutti i miei fratelli con me, siamo stati salvati dall’amore di nostra madre. Nessuno ha preso brutte strade. E poi io sognavo di fare il pugile, di diventare un campione, di vincere l’oro olimpico. Non volevo sporcare il mio futuro”.

Gli è andata bene ed ecco, ecco il desiderio, ecco quasi il dovere morale di far qualcosa per ringraziare, per restituire il bene ricevuto. Sette anni fa Patrizio Oliva si incontra con Diego Occhiuzzi, classe 1981, medaglia d’argento olimpica di scherma, napoletano pure lui. Occhiuzzi vuol fare qualcosa per la sua città, soprattutto per i ragazzi in difficoltà, per quelli che rischiano di finire male. Nasce il progetto “Milleculure”. Insieme aprono Palextra. Che cos’è? “E’ una palestra speciale, dove non cerchiamo di costruire campioni ma uomini. Sta nel Rione Traiano, uno dei più difficili di Napoli. Un quartiere molto a rischio. Dicono che sia la nuova Scampia. Qualche anno fa, di notte, un poliziotto uccise un ragazzo che stava scappando. Ecco, noi questa palestra l’abbiamo aperta per evitare che i ragazzi facciano quella fine, o vadano in galera, o comunque che entrino nel giro della criminalità.

“La palestra è molto grande e molto bella, una delle più belle di Napoli, perché chi vive tutto il giorno nel degrado deve incontrare il bello per cambiare. Facciamo tutti gli sport e la retta è bassa: 35 euro al mese. Ma per tutti i bambini e i ragazzi che non possono permettersi quella spesa, l’iscrizione è gratis. Li vogliamo togliere dalla strada. Con lo sport e con poche parole dirette, chiare. Io non faccio discorsi forbiti, cerco di far vedere loro la realtà: che cosa succede se entrano in brutti giri, e che cosa succede se fanno sport, se studiano, se si cercano un lavoro. Bisogna essere incisivi, parlare guardando negli occhi”. Come con quel ragazzo che lei, Oliva, a un certo punto sfidò sul ring. “Era un bullo del quartiere. Girava con il tirapugni e il coltello, terrorizzava i più piccoli, li derubava. Era un pericolo pubblico. Arrivò nella nostra palestra e mi disse ‘tu sei il mio maestro, ti voglio seguire’. Ma continuava a fare il bullo. 

“Un giorno si presenta con alcuni amici e provoca un po’ tutti. Allora io lo prendo di faccia e gli dico: ‘Vediamo quanto vali come uomo. Sali sul ring’. Lui si mette i guantoni e sale, credendo che gli metta contro un altro ragazzo. Invece sul ring salgo io. E gli dico: allora, sei pronto? Se hai voglia di menare le mani, fai a cazzotti con me. Lui si spaventa e protesta: ‘No maestro, con te non vale, tu sei troppo forte, così non è corretto’. Ah, gli dico, è corretto quello che fai tutti i giorni con il tirapugni? Con i ragazzini? Fai il bullo e il violento con i più piccoli perché sei un vigliacco. Fallo con me, se sei un uomo. Poi mi tolgo i guantoni e il casco, lo tolgo anche a lui e gli prendo il naso. “Lui quel giorno capì la lezione. Si mise perfino a studiare, lui che non leggeva mai perché mi diceva ‘maestro, a leggere mi scoccio’. Un giorno arrivò con un libro di Aristotele: ‘Maestro, mi sono messo a studiare la filosofia’. Oggi è un influencer sui social e insegna agli altri a non fare gli errori che faceva lui”.

Tutti possono cambiare, è il pensiero di Oliva. Perfino lui. “Lo sa che io ho due lauree? Io che non avevo neanche finito la scuola?”. Questa è la storia di un’altra sfida: “Me la lanciò mia figlia Alessandra, che fa la diplomatica. Mi provocava perché io le dicevo che, comunque, avevo studiato: da solo, ma avevo studiato, e insomma le cose le sapevo, una capacità di apprendimento ce l’avevo. E lei: ma allora, se sei così bravo, se le cose le sai, perché non prendi il diploma?  “Mi misi a studiare e a 45 anni mi sono diplomato. A quel punto mia figlia mi disse: ma perché non prosegui? Perché non fai anche l’università? E l’ho fatta, studiando di notte. Mi sono laureato in Scienze turistiche e poi ho ricevuto pure una laurea honoris causa in Scienze motorie. Ecco, ai ragazzi dico: se uno come me ha preso due lauree, tutto è possibile”.

Patrizio Oliva ha quattro figli: Ciro, 40 anni, avuto dal primo matrimonio. Poi tre femmine dalla seconda moglie: Alessandra appunto, che ha 35 anni ed è vice-ambasciatrice italiana in Ghana; Marzia, 30 anni, che lavora per la Msc Crociere; Martina, 23 anni, che lavora a Innovaway, una società di comunicazione, consulenza, informatica. Tutto è possibile, anche partendo da una stanzetta con sette figli a Poggioreale. Tutto è possibile, anche vincere un oro olimpico in casa di chi un anno prima ti ha rapinato. Anche strappare dalle mani della criminalità quei ragazzi che ti ricordano com’eri tu alla loro età: far sapere loro come potevi diventare, e come sei diventato invece. 

La storia di Patrizio Oliva è una storia di genio italiano ma anche di tenacia, di fiducia, di speranza. Quest’uomo che poteva finire sulla strada è diventato un campione, un allenatore, un laureato, una guida per chi ancora cammina con passi incerti. Perfino un attore: ha appena finito un film con Valeria Solarino, Fabrizio Ferracane e Aurora Giovinazzo. Da qualche anno porta in giro per l’Italia il suo spettacolo teatrale “Patrizio vs Oliva”: è la sua storia. Una storia italiana.

 


Per la serie “Storie di genio italiano” di Michele Brambilla abbiamo pubblicato in precedenza le interviste a Giampaolo Dallara (3 ottobre), Gianluca Falleti (17 ottobre), Claudio Lucchese (30 novembre), Franco Stefani (5 dicembre) e Nicola Boscoletto (27 dicembre).

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