Il foglio sportivo
Alla ricerca dei vivai italiani
La Serie A snobba i giovani. Di chi è la colpa? Parla Riccardo Pecini: “In Italia manca un percorso: dopo la Primavera i giovani non sono pronti”
Grazie al report di novembre del gruppo di ricerca svizzero Cies Football Observatory, relativo ai giocatori dei club delle 31 massime divisioni delle federazioni affiliate alla Uefa, si ha la conferma che in serie A viene data poca importanza alla formazione di giovani calciatori.
I numeri dicono che nel campionato italiano c’è il 61,7 per cento del totale di giocatori stranieri e una quota molto bassa (appena l’8,4 per cento) di calciatori formati nei club italiani. Va detto che è una tendenza di tutta l’Europa, a eccezione dell’Ucraina, dove a causa della guerra in corso i giocatori del campionato locale sono quasi tutti ucraini. La pandemia aveva invertito il trend europeo, ma è durato poco.
In Italia la situazione è più grave che altrove. È colpa dei settori giovanili che lavorano male e non fanno crescere calciatori adatti al calcio che conta? “No”, risponde al Foglio Sportivo da Sarzana, dove vive, Riccardo Pecini. In questo momento, dopo l’esperienza a La Spezia, Pecini è fermo. Fermo, per modo di dire, perché in questi mesi ha girato molto per vedere partite e giocatori in tutto il mondo. Figlio d’arte, il padre Aldo portava lui e il fratello nelle tribune degli stadi italiani sin da bambini. Ha iniziato la carriera di osservatore nella Fiorentina, per poi passare al Tottenham. Della Sampdoria è stato in periodi diversi responsabile scouting, coordinatore e responsabile del settore giovanile. Al Milan ha fatto il direttore della scuola calcio, al Monaco il direttore tecnico, a Empoli e Spezia il direttore generale. Dice: “I settori giovanili in Italia lavorano bene, quelli virtuosi non sono pochi, mi vengono in mente l’Inter, l’Atalanta, l’Empoli, il Torino e il Genoa. Quello che invece andrebbe cambiato è il sistema che accompagna i giovani alla prima squadra. Un ragazzo proveniente da una Primavera di Milan, Juventus e Inter oggi non è pronto a giocare in Serie A in quei top club. Io penso che la seconda squadra debba diventare un passaggio fondamentale. La seconda squadra è diversa dalla Primavera e darebbe il tempo al giocatore di fare il suo percorso nei tempi corretti e con continuità. Invece oggi il ragazzo lo dai in prestito un anno, poi devi trovare un’altra soluzione e quindi un’altra ancora. In questo modo i tempi si allungano”.
Pecini racconta la carriera di un suo ragazzo, il portiere del Lecce Wladimiro Falcone, ancora di proprietà della Sampdoria. “Ho preso Wladimiro alla Sampdoria che aveva 14 anni, ha fatto tutta la trafila del settore giovanile blucerchiato passando anche per le Nazionali Under. Riconosciuto come un prospetto di livello, lo abbiamo dato in prestito in giro per l’Italia, spesso in squadre nelle quali sfortunatamente a metà stagione veniva cambiato allenatore. Insomma, ha perso stagioni intere. Nel 2020 lo abbiamo dato in prestito in B al Cosenza, riconoscendo al club un parametro di valorizzazione fuori mercato in modo che giocasse con continuità. La Sampdoria ci credeva moltissimo e lui ha fatto benissimo. Adesso per la prima volta è finalmente titolare in A con il Lecce. Ma ad aprile compie 28 anni”.
Qualche anno in una seconda squadra in un campionato di B o di C avrebbe anticipato probabilmente i tempi. “La seconda squadra deve essere un’appendice della prima, non inserita nel settore giovanile. In Francia giocano in C, in Spagna possono arrivare in B. Sono questi i paesi a cui guardare. Nei tornei minori potrebbero andare bene anche inserite in un campionato di Under 23, ma non in Italia. Su questo la Juventus ha tracciato la strada qualche anno fa dimostrandosi avanti dal punto di vista progettuale. Fagioli, Miretti, Iling e Soulé ne sono gli esempi”.
Qualcos’altro che si potrebbe fare perché negli anni prossimi le conclusioni dei report redatti non siano così tragici? “Ai settori giovanili che lavorano bene andrebbe riconosciuto un indennizzo economico. Deve essere su base oggettiva stabilendo dei criteri predefiniti con cui si valuta tutto, dalla bontà delle strutture alla qualifica del personale, dal numero di giocatori che arrivano alle Nazionali a quelli che raggiungono la prima squadra. In modo che più investi, più ricevi, per poter poi investire nuovamente. Una forma di incentivo che in Italia non esiste. Qualcosina c’è in Serie C per il minutaggio dei giocatori giovani, ma non è uno stimolo particolarmente apprezzato”.
Il papà di Riccardo, Aldo, è un pioniere dello scouting, oggi è a capo degli osservatori del Modena. La sua carriera è lunghissima, ha iniziato alla Fiorentina nel 1992 per poi lavorare con Bologna, Chievo, Lazio, Inter, Torino, Parma, Zenit, Manchester City, Juventus e Napoli. Classe 1978, Riccardo grazie al padre ha iniziato a frequentare questo mondo sin da piccolo, per cui ha conosciuto anche un calcio diverso da quello attuale. “Dobbiamo vivere il nostro tempo, non dire che era meglio una volta. Anzi oggi ci sarebbe la possibilità di programmare la crescita dei ragazzi in modo preciso perché le strutture e gli strumenti quasi sempre sono di alto livello”.
Pecini ha scoperto molti giocatori, sin da giovane ha dimostrato di avere un occhio buono nel riconoscere il talento. Per esempio alla Sampdoria ha portato tra gli altri i giovani Mauro Icardi, Milan Škriniar e Patrik Schick. Quindi anche lui preferisce lo straniero alla formazione del giovane. Al Foglio Sportivo ne spiega i motivi: “Nei club in cui ho lavorato fino a oggi è stato più facile agire così. Non solo per un discorso economico, è stato più semplice andare a prendere un giocatore pronto che crescerne uno in casa. In Liguria non ci sono le possibilità che ci sono in altre parti d’Italia: un milione e mezzo di abitanti, mancanza di strutture e nel mio caso anche la concorrenza con il Genoa che da anni lavora bene. Fuori regione posso andare a prendere i giocatori dopo i 14 anni e spesso rimangono solo quelli di seconda fascia. Costa meno investire su uno straniero di 17 anni, il parametro è più basso perché il mercato è questo. Poi lo straniero si adatta meglio, tendenzialmente ha una cultura del lavoro e una propensione allo spostamento migliore dell’italiano”.