Un bomber nato gentleman
Vialli, genio atipico del calcio italiano. Il calciatore che visse nel futuro
Per i più giovani (che vi siete persi) è il fratello in lacrime che abbraccia a Wembley il suo gemello Roby Mancio. Per gli altri il sogno incredibile e alla fine raggiunto di quella magnifica utopia che fu la Samp di Boskov e Mantovani. E poi la scelta di Londra, vent'anni in anticipo e primo dei nostri cervelli in fuga
Se il falso nueve fosse un concetto ipostatizzabile, capace di vivere di pensiero proprio anche al di fuori delle fumisterie dei telecronisti; se il centravanti atipico fosse un’idea applicabile a tutto tondo di un calciatore, invece di servire da scusante quando i tecnici non sanno spiegare come mai un attaccante è tanto bravo da non poterlo ridurre a uno schema o a un numero di maglia, sarebbe più facile definire Gianluca Vialli come il calciatore più atipico che il calcio italiano abbia avuto.
E anzi un uomo di sport, per essere italiano, atipico a tutto tondo. Gianluca Vialli, con i riccioli di quando era un giovane calciatore, con il cranio rasato e la barba da adulto londinese, con il sorriso aperto e gentile di sempre, è stato il campione dalla traiettoria meno prevedibile, come i suoi scarti di lato, che la dea Eupalla abbia regalato all’Italia. Così differente, così originale, così sempre padrone di sé senza prepotenze, così avanti sui tempi del calcio e sui tempi della vita e della vita pubblica, che l’Italia se l’è lasciato scappare.
La prova regina della affabile, mirabile, atipicità di Vialli sta, come spesso accade, nella fine, che è poi sempre un principio. Nel lunghissimo addio durato quattro anni, da quando nel 2018 disse pubblicamente di avere un cancro (e mai ha ceduto alla inutilità dell’eufemismo, nemmeno all’ultima bella intervista con Alessandro Cattelan), per lui c’è stato solo un grande e discreto affetto. Senza ombra di tifoserie, recriminazioni da curva, classifiche d’appartenenza. Sarà che per i più giovani (che vi siete persi se non l’avete visto giocare) Gianluca Vialli è quel fratello in lacrime, con la barba, che abbraccia a Wembley il suo fratello amato, Roby Mancio, in quella che a buon diritto resterà tra le fotografie più belle della passione calcistica e della Nazionale. Sarà che la dea Eupalla ha voluto sublimare in tutti i toni del blu i suoi trionfi e la sua carriera. Blu con i cerchi di quella che sarà per sempre la sua maglia, blu persino era quella bianconera nella notte di Roma in cui alzò la Coppa. Blu quella del Chelsea dove l’anno dopo andò, primo degli italiani a compiere una scelta non solo d’ingaggio, ma anche di vita. Vialli è nel cuore di tutti, uno di quei campioni impossibili da infettare con le piccinerie da campo, spogliatoio o rotocalco. E forse per questo è così atipico, cioè poco italiano.
Nella bella intervista del 2018 in cui svelò la sua malattia, Aldo Cazzullo partì benissimo ma con il dribbling sbagliato: “Lei è sempre stato un calciatore un po’ sui generis”. “E perché mai?”. “Famiglia benestante, uso del congiuntivo”. Benissimo, perché il cronista deve sempre mettersi all’altezza della curiosità del lettore; sbagliato, perché non sono la famiglia e i congiuntivi a fare di Vialli l’italiano differente che è stato. Gli rispose infatti: “Guardi che io sono cresciuto all’oratorio, come tutti. Non c’era la PlayStation, la tv aveva un solo canale”. A fare di Gianluca Vialli qualcosa di diverso, un oggetto d’affetto inafferrabile, per gli italiani che eravamo tra gli Ottanta e Novanta, era innanzitutto la sua diversità nel gioco (ancora oggi, quando non si sa come definire un fuoriclasse come lui, si dice “un giocatore moderno”). Agilità, potenza, acrobazia. L’altruismo e la fantasia. E poi quella sua lunga fedeltà, e non solo sua, alla sua Sampdoria, al suo gemello-fratello del gol, al genio balcanico e vulcanico di Boskov, ma soprattutto a quel gioiello irripetibile di società, di squadra, di organizzazione del talento che fu l’opus magnum di Paolo Mantovani. Lontano dai grandi club, un sogno da inseguire e finalmente raggiungere, con solo quel dolore che non gli passerà mai, di una Champions blucerchiata sfuggita in un attimo dalle dita.
E poi quella scelta di Londra, primo dei nostri cervelli in fuga, “è un mix di disciplina e libertà: si pagano le tasse, si fa la coda, ci si ferma alle strisce pedonali”; quei vent’anni da expat. Quella famiglia a Cremona, non frequente, questo sì, nel pedigree dei calciatori cresciuti all’oratorio – imprenditori, provincia ricca e riservata, impermeabili alla modalità che gli ha trasmesso il dono della impermeabilità. E quei vent’anni vissuti a Londra con la moglie Cathryn, con le sue due figlie. “Mi sono dato subito degli obiettivi a lunga scadenza: non morire prima dei miei genitori e portare le mie figlie all’altare”, i suoi gol sfiorati. Atipico era, allora, diventare un cittadino del mondo, così lontano dalle beghe e dalla mondanità italiana, dal piccolo palcoscenico. Così bravo da essere perfetto nel calcio inglese, che già a metà dei Novanta era così più avanti del nostro che iniziava a rimpicciolirsi. Così bravo da diventare manager del Chelsea e mostrare di saper essere un coach inglese. E questo modo di affrontare la malattia, la morte, il pudore e il dovere-dolore di dirlo, così poco italiano in questa sua compostezza da gentleman in cui aveva a poco a poco trasformato la sua ritrosia borghese e padana. Più che un altro pezzo del passato del nostro calcio che se n’è andato, Gianluca Vialli è un futuro che non abbiamo ancora imparato a capire.