reportage
L'unica gabbia dove ci si diverte. Ecco perché il padel piace troppo
Viaggio nella tre giorni di Milano dedicata al mondo della racchetta senza corde. Tra appassionati, campioni sudamericani e tanti ex calciatori
Non l’avevo mai preso in considerazione. Sapeva troppo di racchettoni on the beach, o di sfogo atletico tra colleghi senza polpaccio. Tutta questa spocchia senza mai averlo giocato, né visto giocare. Un pregiudizio ragionato. Proprio per questo la tre giorni a Milano dedicata a tutto quanto fa padel mi ha incuriosito, e ho letto l’indispensabile al profano. Il resto potevo vederlo dal vivo.
Nel centro congressi Mico, i vecchi padiglioni della Fiera di Milano, si sale al piano. Si incontra subito la zona spogliatoi, per chi si è portato il cambio da combattimento. Un tizio dice alla signora che fa le pulizie “Io sono dalla Puglia”, un toscanaccio chiede dov’è che si scende. Si avanza verso la ristorazione rapida: vegan corner, food garden, self service di sushi e hot dog, pizza e Coca Cola. Ruminando si osserva dall’alto la grande sala, con i sei campi e la semina di stand espositori. Discesa in scala mobile. Un sacco di gente. Un target perbene.
Vado random. Mi attira un campo aperto di pickleball. Sorta di ping pong amplificato a terra. In America va, da noi ancora ni. Più che potenza, ci vogliono tecnica, posizione e tempismo, mi spiega un responsabile, prima di dedicarsi a un Luigi, che dice di aver prenotato a quell’ora la sua prova. Il campo è occupato, deve aspettare dieci minuti, risponde il responsabile. Dieci minuti non sono pochi, ribatte il tizio, probabile compulsivo in fb, dall’opinione polemica e urgente. Il responsabile non risponde.
Liquidato Luigi prosegue la spiega: il pickleball va meglio per i bambini, e per quelli di una certa età, come noi, aggiunge l’uomo dai capelli brizzolati, indicando con lo sguardo i miei. Il nome è letteralmente ‘palla sottaceto’, la zona sotto rete è detta ‘kitchen’, la racchetta ricorda un tagliere. Ma è quello ‘sciak’ da moscone schiacciato, del colpo sulla sfera bucherellata, che mi spegne ogni pathos. E poi sono qui per quel nome che tronca la padella e gli mette le ali.
Faccio, con esperienza, quello che non sa una mazza, e scelgo il primo stand dove non c’è ressa. Il ragazzo, indottrinato per l’occasione, mi snocciola le caratteristiche delle racchette, che mi ricordano al volo, dopo il tagliere, la padel bucata per le castagne. Aggiunge i prezzi, vantaggiosissimi rispetto ad altri, “perché noi ci teniamo a far avvicinare quelli come lei”. E due.
Il peso va dai 330 ai 390 gr, ripieno in schiuma per il principiante, carbonio per i più esperti. La forma parte rotonda, scivola a goccia, si fa diamante: questione di punto di bilanciamento, più sei capace e più sale, da vicino al polso alla punta. Capito. Impugno e faccio volteggiare nell’aria la racchetta, annuisco, quindi la poso, saluto e ringrazio tanto. Mi dice il nome e di andarlo a trovare in negozio. Non mancherò.
Un signore con maschera virtuale si dimena e colpisce nel vuoto, una giovane donna fa assaggiare il pavimento spugnoso dei campi. Mostra come si incollano le scarpe. Dico la mia, pensando alle caviglie, e lei spiega che le scarpe adatte, a suola rigida e alette zigrinate sugli esterni, ci pensano loro. Non ho capito bene la meccanica, ma vado in fiducia.
Il tabellone dei sei campi con le varie esibizioni è tappezzato di soldout. Una fila di ragazzi in età universitaria discute davanti alla consolle delle prenotazioni, per palleggiare con uno dei campioni, o di istruttori di prima fascia che hanno posti ancora liberi. Nomi italiani, ma soprattutto spagnoli: chi segue il Padel si emoziona a sentirli, io non so nulla. Mi piacerebbe però guardar giocare Oscar Agea, il più forte al mondo in carrozzina, ma si è esibito ieri, e non avrò questo commuovente onore. Mi godo allora al campo 6, ai margini della calca, una bella donna, non più giovanissima. Vado subito a leggere: Marcela Ferrari, argentina, selezionatrice della nazionale italiana femminile. Lancia palline disinvolte, incitazioni e suggerimenti con grinta e pazienza. Gli avventori chiamati in campo tre alla volta sono tutti presi bene, decisi a dimostrarsi, chi passato dallo spogliatoio e vestito preciso, con tanto di fascia al gomito, chi in jeans e sneakers, che gli ha preso la voglia all’improvviso. Ma l’effetto racchettoni non mi abbandona. Passo quindi al campo dove giocano due coppie di padelisti (?) che occupano le prime posizioni del ranking.
E qui cambia tutto. Il pubblico stipato su una tribuna laterale accompagna il gioco con gridolini e cori di oh, fino al colpo finale, che merita applausi a scroscio. Il ritmo è frenetico e disordinato, arrivano colpi che non ti aspetti. Perché in uno sport che usa le pareti come complici, si può pensare e colpire a 270 gradi. Devi però guardare quelli bravi. La mediocrità è soporifera anche qui. Si diverte solo chi gioca. Vero poi che ognuno subisce a modo suo l’estetica della devozione e della tigna.
Vedo allunghi a rischio, lo sbattere contro il vetro della parete in un recupero, le pochissime pause, l’andare facile in affanno. Che spesso rima infortunio. Ma la narrazione sostiene che si gioca tutti, anche appesantiti, o fuori forma. Questo sport ambisce a essere democratico. E infatti crea facilmente dipendenza, come tutte le illusioni. Inclusivo, è la parola che sento più volte, e che dev’essere stata scelta come passepartout.
In attesa dell’esibizione dei friends di Bobo Vieri, faccio un giro per gli stand. Appese e distanziate come sculture in mostra, racchette con nomi da divinità pagana. Vestitini sexy e felpe minime, magliette e reggiseni fighter, i canonici gonnelline e pantaloncini, vale un po’ tutto per giocare a Padel. E trionfano i colori. E il disegno psichedelico. Il Padel sta al tennis come l’hiphop alla danza classica. La butto lì perché nel palco centrale, dietro i campi, pompa una musica da salti segmenti e sudore. Come tutti i migliori che palleggiano col pubblico, anche il presentatore della gara di danza è amplificato giostra, dal suo microfono ambra (una donna diventata oggetto, nel senso più alto del termine).
A ricordare che qui siamo nel tempio della racchetta senza corde, qualche tavolo da pingpong seminato. Staziono davanti a una partita tra due ragazzini. Qui, c’è il mio sentimento. E l’oratorio ha fatto il suo. Qualche altro minuto da guardone poi mi incanto davanti allo alla macchina sparapalle: penso ad ‘Open’, alla vittima sublime Agassi, inchiodato dal padre a quello sputo infernale.
Pausa. Mi appoggio a un tavolino e osservo il flusso di gente, che in alcuni punti del corridoio tra gli stand il passaggio è alternato come nei lavori in corso. E le donne sono tante. “…secondo me le donne hanno l’intuito. Loro sanno istintivamente quali sono i posti dove passa la storia.” I posti giusti, Giorgio Gaber.
Vado allora al campo due, dove si sfidano quattro code di cavallo, tre in gonnellina, una in leggings. I colpi portati sempre col movimento imparato a maestro. Sempre pulito, che fa tanto tennis. L’agonismo non basta a piegare la forma. Ed è tempo di mainstream. Col mio bel Pass Press mi infilo nella zona calda, tra il campo 2 e 3. Telecamere e smartphone, per rapide dirette, domanda risposta, parecchie facce di commentatori che ho già visto smanettando col telecomando. Resettando la vergogna, a Cambiasso chiedo un selfie. Che userò come immaginetta ricordo del santissimo triplete. L’asse arretrata campione del mondo Cabrini Collocati Bergomi si presta a foto spot, Andrea Barzagli completa il parterre dei difensori campioni, 24 anni dopo. Di Biagio si tocca la spalla parlando con un tizio, e se capisco giusto, non potrà dare il meglio. Luca Toni, monumentale e un po' ciondolo, pare annoiarsi nell'attesa, mentre si presta alla sequenza di saluti e selfie col sorriso che usa in pubblicità. Lele Adani invece conversa, gigiona, ride largo, abbraccia caloroso, con pacca sulla schiena: è a casa. Bobo Vieri pare concentrato, da prepartita, o forse è solo scazzato, validi entrambi, con lui. Vincent Candela, barba lunga, la pancetta del rilassato, pronto per la parte di protagonista in un noir francese. Tutti con magliette targate Bombeer.
Alla base di questo strano connubio con il calcio c’è il traino di Bobo Tv. Oltre al fatto che prima del padel ci si trovava a giocare a calcetto, scarsoni compresi. Condivisione e cazzeggio agonista. Fa tanto social atletico, il sudore dei nostri tempi.
Intanto parte a paletta ‘The final countdown’ degli Europe, colonna sonora da incontro decisivo di boxe e derivati. La solennità muta del tennis è impallinata. E la sequenza di fotografi è appostata come plotone di esecuzione.
Ressa sulle gradinate e dietro la vetrata, ovazione per Bobo, ma anche Adani ha i suoi fans: uno che si immola fa comunque like. Io sono uomo da Pizzul, emozione trattenuta a fil di pelle, oppure Stefano Bizzotto, professore in relax, che un colpo di genio ha messo vicino al Lele nelle telecronache.
Un ragazzo pulisce le pareti del campo danzando sincopato, e il movimento del tergivetro ricorda il mimo che ricopre il muro con i palmi. Tutto quanto fa spettacolo. Nella zona tra i due campi è salotto, i divani bianchi sono occupati, ma trovo libero un morbido pouf a forma di pallina, sul quale mi dondolo prendendo appunti. Vippismo relax e gente con il Pass Press al collo si scambiano materia da dare in pasto. Mi arriva l’incipit di una frase, pronunciata alle mie spalle: “Noi come padeliani anonimi… “ e mi basta. Non indago. Un ritrovo di persone che si confronta, per guarire. Da quella che si avvia, a diventare pandemia.
E si inizia. La battuta dal basso mi rammenta il minorenne Chang che consuma Lendl al Roland Garros. Ma qui è obbligata. Mi pare giochino tutti allo stesso livello, e per vincere. L’esibizione è anche in questo. Le schiacciate si sprecano, visto il rimbalzare alto dalla parete di fondo, ma vanno a chiudere il punto solo nel fuori campo. Picchiarla non è il must. E il tocco smorzato, o dolce in profilo, richiede altri livelli.
Ma capisco perché il trend sia inarrestabile. È l’unica gabbia dove ci si diverte.