L'Inter vince, il Milan ha perso anche fiducia ed entusiasmo
La Supercoppa italiana ha reso evidente che il grande problema dei rossoneri, non il solo ma il principale, è l'assenza di Mike Maignan
A Riad l'Inter ha facilmente ragione di un Milan orrendo, piombato al suolo da una totale mancanza di fiducia e di entusiasmo: sembrano paroline da biscottini cinesi della fortuna, in realtà rappresentano la chiave di tutto. La chiave, perlomeno, dello scudetto 2022: un gruppo che è andato oltre i suoi limiti attraverso un atteggiamento da squadra in missione, sulle nuvole, resistendo al corpo a corpo contro un'Inter più forte ma fiaccata dallo stesso virus che ora affligge i campioni d'Italia in carica.
Non c'è bisogno di andare troppo lontano: torniamo al derby dello scorso 3 settembre, vinto con un 3-2 persino stretto. Il dato più banale, eppure rivelatore, riguarda i due portieri Handanovic e Maignan, diversi da quelli di ieri. Inzaghi ci ha messo due mesi per cambiare lo sloveno con Onana e la mossa si è rivelata un toccasana nei numeri e nel gioco: la squadra ha rilassato i nervi (ricorderete tra settembre e ottobre le continue scenate di Barella, e non era l'unico) e ritrovato convinzione, con l'impresa in Champions come punto esclamativo. Pioli invece ha perso colui che, per chi scrive, è stato l'Mvp della stagione 2021-2022: non solo – banalmente – perché è un portiere che para, ma per il suo status di leader temperamentale, tecnico (lanci, passaggi smarcanti, soluzioni mai banali per avviare l'azione), persino tattico: ricordate quando avanzava fino a centrocampo per disporre i suoi compagni su una punizione in attacco? Avere Maignan alle spalle rendeva molto più leggeri Kalulu e Tomori, che anzitutto potevano stare in campo un po' più alti, intensi, aggressivi: un po' più sicuri. L'insicurezza cronica della difesa, smascherata dai frequenti litigi in campo tra compagni di reparto, innesca un tremendo circolo vizioso: avere Kalulu e Tomori in condizioni psico-fisiche smaglianti consente a Theo Hernandez e Calabria di sciogliere le briglie, consente ai mediani di non giocare con l'ansia che un passaggio sbagliato o una distrazione individuale causerà sicuramente un'occasione da gol, consente alla squadra di pensare in avanti e non all'indietro. Il cambio di testa risulta ulteriormente fatale per una squadra che ha costruito i suoi risultati dell'ultimo biennio su un forte coefficiente di rischio: senza mai amministrare, a disagio nei ritmi bassi, un calcio difficile e ottimista. Siamo arrivati alla parola chiave: ottimismo.
Per colpa di Tatarusanu che anche se non fa errori comunque non è Maignan (purtroppo per lui, è un problema a cui è difficile porre rimedio), il Milan aveva iniziato a scricchiolare già in autunno: anche nel trionfale 4-0 sul Salisburgo l'onesto portiere rumeno era stato centrato più volte dagli attaccanti austriaci, arrivati spesso in zona pericolo. La dirigenza non ha voluto o saputo porre rimedio a questo discreto segnale d'allarme: le amichevoli di dicembre hanno ripresentato il problema amplificato per dieci, tanto che nel disastroso test di Eindhoven Pioli aveva provato titolare persino il baby-pensionato Mirante (respinto con perdite). Il Milan s'era già incupito a Salerno, vincendo “solo” 2-1 una partita che doveva finire 7-0, e ha perso definitivamente l'ottimismo nello sciagurato finale con la Roma, dove ha visto andare in fumo due punti in cinque minuti di black-out. “Dobbiamo ritrovare leggerezza, dobbiamo ritrovare entusiasmo”, ripete Pioli invano da una settimana. Ma spesso si tende a confondere l'entusiasmo con la personalità: il Milan non ne ha tanta, a eccezione dei vecchi lupi alla Giroud e Kjaer che però in queste settimane stanno grattando il fondo del barile. A proposito, sapete chi ne ha a pacchi? Maignan.
Così anche Pioli, uomo che in carriera non ha mai dimostrato straordinarie doti da navigatore nella tempesta, inizia a diventare irrilevante, come in quel vecchio film di Woody Allen in cui Robin Williams recitava fuori fuoco. Ieri al 60', a fronte di un inizio di secondo tempo quasi incoraggiante, ha voluto tentare la sorte con il paracarro Origi e il pulcino bagnato De Ketelaere al posto di Diaz (uno dei meno peggio) e Messias, provando forse a ripetere il copione di Lecce, dove l'aveva ripresa per i capelli a suon di lanci lunghi. Ma l'Inter non è il Lecce. Poco entusiasmo anche da parte sua, costretto dal gioco delle parti a una costante distribuzione delle colpe a partire da sé stesso, in una stanca e trascinata litania che ha già previsto l'antiquata soluzione del mini-ritiro punitivo dopo la Coppa Italia, cui sono seguite le due peggiori prestazioni stagionali. Non riesce a trovare idee tattiche altrettanto convincenti che siano alternative a un impianto di gioco che per due anni ha funzionato benissimo ma adesso è troppo condizionato dalle lune calanti dei giocatori migliori: anche in Rafa Leao, quando le cose non girano, torna fuori tutto il suo narcisismo. E adesso, che il calendario prevede in sequenza Lazio, Sassuolo e ancora Inter? Sapete chi servirebbe? Servirebbe Maignan.
Diventa sempre più surreale la cortina fumogena che il Milan sta spargendo da settimane attorno all'infortunio del suo portiere. A onor del vero, è una triste abitudine di quasi tutte le squadre più forti, che da Vlahovic a Lukaku quest'anno hanno tutte avuto almeno un latitante illustre. Non si sa nemmeno esattamente che tipo di ricaduta abbia avuto: speriamo che almeno questo sia chiaro nelle segrete stanze di Milanello, per non correre il rischio di giocare con la spia rossa accesa fino a maggio. Vi sembrano parole esagerate? Invece ci pare a grandi linee la stessa situazione precaria che vive solitamente il Liverpool quando manca la sua colonna, Virgil Van Dijk: un solo difensore, certo, ma essenziale non solo per il suo immenso valore, ma anche per come migliora il rendimento altrui con la sola presenza in campo, anche se a mezzo servizio. Adesso si è fatto male e starà fuori per oltre un mese: e subito i Reds, in cui ormai vacilla persino un guru come Klopp, si sono inabissati 0-3 a Brighton. Checché ne dicano gli allenatori più utopisti e amanti delle frasi a effetto, i calciatori non sono tutti uguali.
Lo sa bene Simone Inzaghi, che nel momento più difficile – con un centravanti fuori forma, una seconda punta invisibile e un campione di quasi 37 anni che non potrà tirare la carretta troppo a lungo – si sta felicemente aggrappando a un 3-5-2 senza strilli e senza grossi cedimenti il cui leader tecnico è un Lautaro Martinez rigenerato dal Mondiale: potenza di un rigore sbagliato da Tchouameni o di una parata del Dibu Martinez. Singolare il confronto tra lui e i francesi Theo e Giroud, che teoricamente hanno staccato in Qatar allo stesso giorno e alla stessa ora, ma con bilanci finali leggermente diversi: l'ennesima prova che la testa muove tutto, e smuove anche le montagne. Lo ha dimostrato nel bene il Milan 2021-2022, lo sta dimostrando nel male il Milan 2023.