Il Foglio sportivo
Dybala aveva bisogno d'amore
Dopo i mormorii del pubblico juventino, Dybala è stato accolto dalla città con una grande dichiarazione d'amore. È la passione ad animare il talento argentino: il primo ad accorgersene fu José Mourinho
Seduto ai piedi del Palazzo della Civiltà Italiana, che per i romani è più semplicemente il Colosseo quadrato, Paulo Dybala deve aver pensato di essere finito in un’altra dimensione, su un altro pianeta. Con lo sguardo adorante, l’occhio lucido e il cuore gonfio, si è fermato per qualche istante e ha ascoltato migliaia di tifosi romanisti cantare cori in suo onore e lui fermo lì, a godersi lo spettacolo di queste anime ammassate in un atto di speranza cieca, di amore incondizionato, disposte a fondersi in un abbraccio collettivo segnato dalla folle umidità romana di fine luglio, ancor prima di averlo visto anche solo palleggiare con la nuova maglia.
L’esperienza romanista dell’argentino è iniziata così, con una dichiarazione d’amore, e parte fondante del suo successo in questi mesi la si deve proprio a quella fiducia che ha sempre pensato di meritare e che si era via via affievolita dopo anni di acciacchi, infortuni più o meno gravi, discussioni su contratti che sempre più di frequente trasformano i tifosi in commercialisti. Dybala che abbracciava Roma in una serata bollente, alle 21.21, a voler onorare la scelta di un numero di maglia che sa a sua volta di un segno di rispetto, per non turbare l’adorazione della divinità pagana abituata a indossare la 10 in precedenza, è stato il sigillo di un’unione perfetta: da una parte una squadra e una piazza alla ricerca di un leader tecnico del suo calibro, dall’altra un ragazzo del 1993 che per far sgorgare dal suo piede sinistro un calcio d’altri tempi forse aveva bisogno anche di questo, di vedere tanti altri ragazzi della sua età (e non solo) spendere così un martedì sera estivo.
A seguire, quell’intesa che soltanto José Mourinho e pochi altri esseri umani che fanno il suo mestiere riescono a stabilire con l’uomo, prima che con il calciatore. Mou che borbotta quando le cose non vanno, che non si fa troppi problemi a offrire in sacrificio corpi che non ritiene idonei alla battaglia, ha capito prima di tutti che con Dybala sarebbero servite le carezze. Pochissime stilettate, arrivate quasi tutte a ridosso dell’impegno mondiale, quella Coppa che Paulo ha vinto tirando un rigore in finale e che qualche settimana prima pensava di aver perso proprio calciando dagli undici metri sotto la Curva Sud: un infortunio che sembrava uno schiaffo del destino. Sembrava l’inizio di una nuova maledizione, dopo i primi mesi in cui aveva già cominciato a disegnare calcio come faceva ai tempi di Palermo e delle parentesi migliori con la maglia della Juventus: un periodo, quello bianconero, in cui Dybala forse ha pagato peccati di hybris altrui, come quando era stato paragonato a Messi. Anche a Torino si è sentito amato, certo, ed è stato decisivo per vittorie pesantissime. Ha segnato gol incredibili e servito assist geniali, ma nell’ultimo periodo erano diventati ricordi lontani.
C’era sempre un brusio di sottofondo, impercettibile all’orecchio distratto, ma chiarissimo per chi invece è sempre pronto ad ascoltare: “Sì, è forte, ma…”. Le quattordici reti in campionato segnate negli ultimi due tornei, in una Juventus così lontana dalla macchina perfetta degli anni precedenti, avevano alimentato dubbi e cancellato certezze. Maurizio Sarri, che ora siede sull’altra sponda del Tevere, era stato l’ultimo a incanalarne il talento nella direzione giusta. Dybala aveva risposto tirando fuori la Juventus dalle secche in cui si era incagliata prima del Covid, diventando l’Mvp del campionato nel momento dell’anomala ripartenza. La telenovela sul rinnovo ha fatto versare fiumi di inchiostro fino alla rottura, annunciata in largo anticipo.
A quel punto, ha avuto tempo per pensare. La corte dell’Inter, nonostante Marotta, deve essere sembrata un gesto di facciata, un atto dovuto, la possibilità di aggiungere un jolly in un mazzo già fin troppo fornito. Dybala non voleva essere una carta qualunque ma il Re di cuori, con un rosso intenso che ha preso qualche venatura di giallo. Ora esiste una Roma senza Dybala e una Roma con Dybala, per stessa ammissione di Mourinho, che l’ha implorato di tornare con qualche giorno di anticipo rispetto al previsto per averlo a disposizione contro il Bologna. Quella senza Paulo è spesso spaesata, alla ricerca di una soluzione al problema senza avere la chiave giusta per uscirne. L’altra, invece, ha sempre un porto sicuro nel quale approdare. È un tipo di leadership che non ha un riscontro plastico, non è fatta di esortazioni e sbracciate, ma consente comunque ai compagni di essere più tranquilli. E se la partita è bloccata, sporca, complessa da risolvere, chi meglio di lui.
“Quando giochi con Paulo la palla è sempre rotonda, potrei giocare anche io, quando la toccano gli altri a volte sembra quadrata”, ha detto il portoghese. La doppietta contro la Fiorentina ha visto anche affinare l’intesa con Abraham, uno degli aspetti che più avevano dato da pensare nella prima metà di stagione, nonostante alcuni duetti ai limite della telepatia, come l’assist che Dybala aveva inventato allo Stadium per far segnare l’inglese. Qualche giorno prima, contro il Genoa, Mourinho lo aveva gettato nella mischia all’intervallo per sbloccare lo stallo di una partita insidiosa ed evitare quegli scivoloni che sono costati i quarti di Coppa Italia a qualche big. Dybala aveva risposto facendo quello che gli viene più naturale: segnare e correre sotto la Curva Sud, a incrociare alcuni degli sguardi che aveva visto in quella notte di luglio, con un caldo esasperante e un amore che sa togliere il fiato.