Il Foglio sportivo
Fefè De Giorgi racconta come ha trasformato l'Italia del volley
“Ho rimesso la maglia azzurro al centro”, ci dice il ct del volley mondiale: “Mancini mi ha ispirato nel cambio generazionale”
Con la sua calma e la sua serenità ha colpito il presidente Mattarella. Con la sua ironia e la sua simpatia ha contagiato gli azzurri del volley che con la sua guida ha poi portato all’oro Europeo e a quello Mondiale. In Italia non c’è nessuno che abbia vinto quattro Mondiali e due Europei come Ferdinando Fefè De Giorgi. Ha cominciato in campo, alzando la palla alla prima generazione di fenomeni della nostra pallavolo, sta continuando in panchina al comando di una nuova generazione di fenomeni che in un anno ha vinto tutto e ora deve far finta di non pensare che nel 2024 ci sono i Giochi da sempre proibiti per noi.
Fin che c’è da scherzare De Giorgi è in prima fila. Gli piace ridere e far ridere. “Ricordiamoci sempre che facciamo sport, non andiamo in miniera”, dice l’ex ragazzo che arriva dal Salento, da un piccolo paese, Squinzano, a nord di Lecce. In palestra però cambia faccia e di tempo per ridere ne resta poco. “Non mi piace la mediocrità, mi piace la gente che va sempre al 100 per cento, in allenamento sono esigente, però se ci sta lo scherzo non lo dimentico. Mi piace vivere con ironia. Io ho un’idea lieta della vita”. E lo fa vedere.
Toglietelo dalla panchina e dallo spogliatoio e mettetelo per una sera sul palco di un teatro con due suoi vecchi compagni come Zorro Zorzi e Gardo Gardini e con l’infinita Francesca Piccinini, sapientemente diretti da Roberto Righi, direttore generale di Prometeon che ha organizzato la serata chiacchierando attorno alle “Generazioni di fenomeni” del volley. Basta per capire perché Ferdinando De Giorgi era soprannominato la Mosca Fefè. “Più che una generazione di fenomeni eravamo una generazione di minatori”, esordisce spiegando che quell’Italia, nata con Velasco e poi proseguita quasi all’infinito, era basata più su lavoro e determinazione che sul talento. De Giorgi ha sempre la battuta pronta. Sul naso di Zorro, i piedoni di Gardini, la marmorea Piccinini. Ruba le domande a chi vorrebbe condurre. Un mattatore. Se lo vedesse Amadeus e avesse il fisico della Picci, probabilmente lo vedremmo a Sanremo. De Giorgi è uomo squadra. “Ho imparato in casa, eravamo nove fratelli. Se non giocavamo di squadra e non ci facevamo un po’ furbi, era finita”. Viene dal Salento che non ha mai abbandonato. Viene dall’oratorio dove un giorno, sentendo il rumore magico di un pallone colpito bene in una schiacciata, ha capito che avrebbe voluto giocare a volley. Non era alto, ma quei cinque centimetri in meno si sono trasformati da limite a stimolo per andare oltre. Una cosa che gli è riuscita prima in campo e poi in panchina. In Italia non ne trovate altri con in tasca quattro ori mondiali (e due europei). “Il sapore della vittoria è sempre bello, ma viverla da giocatore o da allenatore è diverso. Da giocatore vivi la gioia su te stesso all’interno della squadra, da allenatore la vivi in modo più completo perché sai che dentro quel successo c’è tanto di tuo. Hai messo le tue idee, scelto i giocatori, creato la squadra, un’idea di gioco, lo staff. Sai di aver costruito qualcosa di tuo. Un allenatore ha un grande peso in fase di costruzione, poi durante il gioco la palla passa in mano ai giocatori. Il grande lavoro lo devi fare prima, durante la partita riesci a incidere meno. Esagerando si può dire che l’allenatore conta al 100 per cento nella costruzione, mentre durante la partita se riesci a contare un 20-30 per cento già stai facendo un buon lavoro”.
Ecco spiegato perché in panchina De Giorgi è calmo e sereno, come ha sottolineato anche il presidente Mattarella: “Cerco di arrivare alle partite dopo aver fatto il massimo, ma è un po’ una mia indole caratteriale. Cerco di incidere nei momenti in cui può essere decisivo. Quando arriva la partita lo sforzo che faccio è cercare di essere utile ai giocatori, di vivere la partita senza farmi trascinare dall’agonismo cercando di essere il più lucido possibile. Oggi poi è tutto più veloce, non puoi aspettare a prendere le tue decisioni, rischi di perdere l’attimo e poi quei punti diventano difficili da recuperare”.
“Per fare l’allenatore devi avere avuto la chiamata un po’ come un missionario – racconta – Fin da quando giocavo il mio obbiettivo era crescere e migliorare, oggi cerco di farlo fare ai miei giocatori. Faccio le cose alle quali credo, una cosa che non è così scontata. Da quando ho cominciato fin da piccolo mi segnavo su un quaderno le cose che mi piacevano, un esercizio in allenamento, una frase di un allenatore o di un giocatore importante. Ho sempre avuto la mania di prendere appunti, ma non pensavo di allenare. Quando mi hanno dato il primo premio alla carriera a 33 anni ho detto: non si dà mai un premio alla carriera a un giocatore in attività perché è come mandargli un messaggio… Lì ho cominciato a pensare al futuro, il mio ruolo, quello di palleggiatore, aiuta a pensare da allenatore. Poi a Cuneo mi hanno chiesto di allenare, ma a 38 anni non me la sentivo ancora di smettere e allora mi hanno proposto di fare per due anni l’allenatore giocatore e quelli sono stati due anni importantissimi cominciando a costruire la mia filosofia e ho capito quanto è importante avere uno staff, saper delegare. Con me ho chi segue la parte tecnica, la parte fisica e quella mentale. Ho sempre avuto con me il pedagogista perché mi interessa molto la parte dell’apprendimento e la parte valoriale”.
De Giorgi è diventato ct dopo le Olimpiadi di Tokyo. Ha avuto 20 giorni, sei allenamenti e due amichevoli, per costruire la sua Nazionale per l’Europeo. “Mi sono chiesto: faccio una scelta comoda e continuo con chi è stato ai Giochi o vado con il cambio generazionale? Ho fatto la scelta meno comoda, ma più utile per il futuro. Mi sono detto: se in giro ci sono dei giovani bravi qualcuno deve dar loro l’opportunità. Non nego che mi ha ispirato e stimolato Mancini. Aveva portato in Nazionale gente che non avevo mai sentito. Aveva avuto fiducia nei giovani andando a cercarli. Ho fatto lo stesso. Ho studiato, cercato e trovato giovani con grandi potenzialità. E alla fine ho trasmesso un messaggio: ho rimesso al centro il valore della maglia azzurra. Se non senti energia, orgoglio e responsabilità quando indossi quella maglia significa che qualcosa non va”. Lunedì al Coni si troverà fianco a fianco con Mancini, Pozzecco e Campagna, i ct di calcio, basket e pallanuoto, tutti ex giocatori come lui. Il convegno, promosso dalla federbasket di Gianni Petrucci, si intitola “Allenare azzurro” (ore 11.30, diretta sul canale twitch della Fip Italbasketofficial) “Una bella idea – aggiunge – Sarebbe importante organizzare un paio d’incontri all’anno per scambiare idee, opinioni, esperienze tra i ct degli sport di squadra”. Oggi l’Italia del volley è campione d’Europa e campione del mondo con una Nazionale che ha 23,8 anni di media. “Il risultato è importante, ma crescere e migliorare deve essere il nostro mantra e questi ragazzi hanno ancora un margine di crescita enorme”. Le Olimpiadi, vera bestia nera del nostro volley, sono già là all’orizzonte.