(foto Ap)

a melbourne

Sinner non è Alcaraz (o Rune). Ma non consideratelo bollito

Luca Roberto

La sconfitta dell'altoatesino all'Australian Open non è "una vittoria": prova solo che Tsitsipas è più forte. E che da lui non ci si devono aspettare exploit: per arrivare in alto avrà bisogno ancora di tempo

Sinner in inglese vuol dire peccatore. E quindi, insomma, non sconvolgerà affatto se la sua sconfitta contro Stefanos Tsitsipas agli Australian Open la si considerasse un gran peccato. Arrivato così vicino a contendere l'accesso ai quarti di finale al futuribile nuovo numero uno al mondo, l'altoatesino s'è fermato sul più bello. Dopo aver recuperato uno svantaggio di due set, al quinto s'è disunito. E complice anche una percentuale stellare di prime di servizio dell'avversario, è improvvisamente uscito dal campo. “Ho sbagliato un paio di colpi, non le scelte”, s'è rammaricato alla fine del match, quando aveva già percorso con lo sguardo basso, borsone in spalla, la visiera del cappellino calata sopra alle ciocche ramate, il lungo corridoio verso gli spogliatoi che i giocatori sono costretti ad attraversare con la gioia o il magone in gola. Nel suo caso ha prevalso la seconda, come sempre gli capita quando affronta i primi cinque al mondo in un torneo dello slam. Solo che mentre lo scorso anno contro Tsitsipas era sembrato un giocatore juniores, di almeno tre-quattro categorie inferiore, ieri nel terzo e quarto set, sebbene avesse dall'altra parte della rete la miglior versione dell'ellenico, ha fatto partita alla pari. Anzi, s'era fatto persino preferire per varietà di gioco, prontezza nella risposta, solidità al servizio, e in quell'innumerevole serie di smorzate messe a segno sì da spezzare gambe e fiato e ritmo dell'opponente.

 

Il quinto set partiva con i migliori auspici ma nel primo punto Sinner ha come invertito il flusso d'energia e il corso degli eventi, infossando uno smash facile facile dopo un lob miracoloso in recupero di rovescio. S'è capito che una volta concesso il break non ci sarebbe stato più nulla da sperare. E fa bene il 21enne italiano a dispiacersi “di aver fatto un casino”, che ha fatto cambiare rapidamente inerzia alla partita. Ma da qui ad accusarlo di essere un giocatore inconsistente, si fa il passo più lungo della gamba. Al contempo sbaglia chi scrive che “questa sconfitta è una vittoria”, perché è Sinner stesso a comprendere come un tassello fondamentale manchevole al suo tennis è la capacità di spuntarla in queste sfide “too close to call”. Quando a farti accedere al turno successivo è la cura del dettaglio, un centimetro in più di profondità o una palla un po' troppo corta, un sussulto in meno di convinzione.

 

A Wimbledon dello scorso anno, dopo aver battuto Alcaraz, giocò due set e mezzo interstellari contro Djokovic, ma perse. Agli Us Open ebbe match point contro il poi vincitore e numero al mondo spagnolo, ma soccombette. Oggi gli si recrimina di non aver quantomeno eguagliato i quarti dello scorso anno, ma chi non vede il suo percorso di crescita è semplicemente in malafede. Sinner non è Alcaraz, e non è nemmeno Holger Rune, il 19enne danese destinato a sfasciare in tempi brevi aspettative e gerarchie della racchetta. Due riferimenti tutt'altro che casuali perché entrambi l'exploit ce lo hanno avuto battendo Tsitsipas in un major, cosa che a Sinner non è mai riuscita di fare.

  

Quando lo scorso febbraio decise di abbandonare la storica collaborazione con l'antistatalista Riccardo Piatti, l'italiano aveva come obiettivo quello di diventare competitivo nei tornei più importanti, sfidando i giocatori più forti del ranking. Perché partire con il vantaggio dei pronostici per lui non è mai stato un problema: ha vinto 27 partite su 28 contro giocatori con una classifica inferiore nella cornice degli slam. E' vero che da allora la sensazione di “giocatore-cantiere” non lo ha mai del tutto abbandonato. Eppure se una risposta c'è stata nell'ultimo anno, ebbene questa è stata la progressiva volontà di provare a essere qualcos'altro che solo se stesso. Non sarà ricordato come l'Holden Caulfield del tennis, con quell'invalidante paura di crescere. Ma nemmeno l'Uomo finito di Giovanni Papini (“Io non sono mai stato bambino, non ho avuto fanciullezza”), perché grande non lo è diventato d'un colpo, senza alcun metro di comparazione. Il romanzo di formazione del ragazzino rosso è ancora tutto da scrivere. Contiene un gran numero di pagine, non ci sono stravolgimenti di trama. Eppure potrebbe soddisfare un po' tutti: anche i gusti di coloro che adesso lo accusano, a 21 anni e dopo sei qualificazioni consecutive agli ottavi di finale di uno slam, di essere già bollito nella pentola delle aspettative senza conferma. Calma.

Di più su questi argomenti: