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l'impresa eccezionale

Felipe Anderson ha imparato l'arte del sacrificio

Marco Gaetani

Alla Lazio Maurizio Sarri è riuscito a trasformare un giocatore con tanto talento, tante pause e troppo amor proprio in un calciatore disposto ad aiutare la squadra e provare a guidarla al successo. A trent'anni non è un cambiamento da poco

Essere normale, come sosteneva Lucio Dalla, è un’impresa eccezionale. Felipe Anderson ci ha messo un po’ ad afferrare il concetto, avendo incarnato per anni lo stereotipo del brasiliano talentuosissimo e umorale. In un freddo martedì notte all’Olimpico, nel clima perfetto per una serata da comprimario, ha confermato che la crescita dell’ultimo anno rappresenta invece il compimento di un giocatore atipico, che agli ordini di Maurizio Sarri ha scoperto l’importanza e la nobiltà del sacrificio. Nell’ultimo periodo, il tecnico gli ha dovuto cucire addosso un vestito diverso, quello del centravanti: dopo anni da uomo bionico, sempre presente anche per mancanza di alternative, Ciro Immobile ha scoperto che i suoi muscoli non sono più quelli di una volta. E così, senza un vice credibile, Sarri se l’è dovuto inventare. Gli era già successo a Napoli, trasformando la carriera di Dries Mertens. Stavolta ha scelto Felipe Anderson.

    

La vita calcistica del brasiliano aveva conosciuto la sua prima impennata grazie a Stefano Pioli. Felipe Anderson arrivava da una stagione da seconda linea, pochi gettoni, quasi tutti spesi malissimo. Un’annata di equivoci, tattici e linguistici: una delle prime ordinazioni fatte in un ristorante romano era stata la carbonara, un amore a prima vista che lo portò a mangiarla in maniera praticamente ininterrotta per i primi due mesi. Poi, con Pioli, l’esplosione, da dicembre del 2014: si era abbattuto sul campionato con l’irruenza di un tifone, tra gol che promettevano un futuro in un top club europeo e discese palla al piede in cui sembrava semplicemente inarrestabile per difensori che andavano alla metà del suo passo. One season wonder, dicono Oltremanica. Nel suo caso, half season wonder. Quel Felipe Anderson, pur con qualche guizzo qua e là, non si era più visto.

 

Simone Inzaghi aveva cercato di farlo diventare un esterno a tutta fascia, arretrando il suo raggio d’azione di qualche metro e ottenendo in cambio alcune buone prestazioni e parecchi musi lunghi, fino a reinventarlo seconda punta. Una rivisitazione convincente, che aveva indotto il West Ham a sborsare 38 milioni di euro per portarlo a Londra. Poi, dopo una buona prima stagione, più nulla. Due gol in due anni con in mezzo un prestito infruttuoso al Porto e la scelta di ritornare a Roma. Sembrava la rinuncia a una promessa di grandezza, uno scendere a patti con la realtà: la Premier League lo aveva illuso e masticato, rigettandolo come non all’altezza.

   

Il calcio di Felipe Anderson era fatto di lunghe pause e rigogliose fiammate. Sarri ha cercato di lavorare per ridurre questi momenti di pausa: "Felipe mi lascia sempre questa sensazione che sto per incazzarmi. Sta cercando di limare questi momenti di vuoto che ha sempre avuto, durante le stagioni e all’interno della stessa partita. Sarebbe un passo grosso, per lui e per noi", diceva al tramonto della scorsa stagione.

 

Quest’anno ha avuto in cambio un giocatore diverso, che sa di poter fare la differenza anche solo con una pressione ben portata o un raddoppio di marcatura. E poi, senza Immobile, è diventato quel numero nove falso e allo stesso tempo verissimo, riferimento prezioso per i compagni nel fraseggio. Sa farsi parete nelle sponde e fuggire con un primo tocco orientato, aiutare la squadra e, quando serve, anche segnare. Felipe Anderson ha abbracciato la continuità, il sacrificio, la normalità. A qualche mese dai 30 anni, è un’impresa eccezionale.

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