Serie A
Il Milan si è cacciato nel cul-de-sac dell'iperconsiderazione di sé
La sconfitta con la Lazio per 4-0 segue quella per 3-0 contro l'Inter in Supercoppa italiana. Stefano Pioli sta vivendo in rossonero la prima situazione davvero complessa da quando è arrivato. Rocco aveva dato la via per uscirne: basta “no eser mona senza saverlo”
Possono due gol presi negli ultimi minuti di una partita giocata sino a quel momento parecchio bene cambiare una squadra, sgretolarne le certezze, far smarrire un intero gruppo che si credeva forte, pronto a continuare a vincere? Certamente no. Eppure a volte sì, due gol e una vittoria sfumata, quella contro la Roma, possono amplificare, espandere, far esplodere dubbi da inadeguatezza. Quelli da cui servirebbe sfuggire nel calcio, perché nulla è più pericoloso e rischioso dell’avere dubbi sull’essere adeguati a stare nelle prime posizioni, a vincere. Quelli che sta attraversando il Milan in questo gennaio 2023, mentre osserva, impotente e impassibile, tutto il meglio che è stato sparire dagli occhi e soprattutto dai piedi.
Dalla rimonta subita a San Siro contro la Roma (dal 2-0 al 2-2) il Milan non ha più vinto: ha perso contro il Torino in Coppa Italia, ha pareggiato con il Lecce in campionato, ha soprattutto perso con l’Inter in Supercoppa italiana e con la Lazio in campionato, subendo sette gol e non segnandone nemmeno uno. Era già successo in passato e sempre nello stesso periodo. Le squadre di Stefano Pioli hanno spesso una flessione di rendimento tra gennaio e febbraio, forse a causa della preparazione fisica, forse a causa delle difficoltà del tecnico di gestire i momenti post pausa o le partite ravvicinate, chissà. Ma c’è qualcosa di nuovo in tutto questo: l’incapacità della squadra a provare non solo a costruire il gioco, ma anche a tentare di arginare quello altrui.
Il Milan si è ritrovato per la prima volta negli ultimi anni in quel cul-de-sac in cui a volte ci si trova quando la realtà della proprie capacità si distacca dalla autopercezione che si aveva di queste. Insomma quando ci si accorge che ciò che si credeva di essere, o essere diventati, è diverso da quello che in realtà si è.
È qualcosa che accade spesso dopo periodi felici, nei quali si è riusciti, in un modo o nell’altro, a ottenere risultati che sembravano difficilmente ottenibili.
Il Milan ha vissuto anni complicati nei quali gli insuccessi erano stati maggiori, molto maggiori, dei successi. Un periodo nel quale le vittorie dell’allora recente passato iniziavano a essere un passato storico e non un ricordo per un’intera generazione di tifosi. Tanto da diventare strambe, se non quasi ridicole, quelle espressioni che abbondavano nelle bocche dei dirigenti, frasi tipo “riscoprire il dna vincente”, “riaffermare la nostra abitudine al successo”. Per una parte della tifoseria, la più giovane, tutto ciò era semplicemente impossibile da ricordare, perché non c’era ricordo, solo parole stampate nei libri o immagini che ormai portavano in loro il peso degli anni e della tecnologia che avanzava.
Il Milan, i tifosi milanisti, si erano convinti che tutto ciò potesse ritornare e continuare a esistere dopo lo scudetto della scorsa stagione. D’altra parte quella squadra era giovane, aveva ampi margini di crescita, soprattutto era l’emanazione su prato di un lungo lavoro di una dirigenza che era riuscita a creare tanto con (relativamente) poco. E tutto questo aveva creato un’aspettativa di crescita continua, aveva iniziato a dare senso a quelle frasi che per anni chi guidava i rossoneri aveva continuato a ripetere.
Allenatore e giocatori hanno creduto, ci credono ancora, che quella fosse la strada giusta per continuare a giocare da protagonisti, lottare per vincere se non tutto, quantomeno tanto. S’erano, si sono, convinti che il loro talento, le loro capacità, e quelle del tecnico e dei dirigenti potessero bastare a rimanere in alto, ad accumulare trofei.
La consapevolezza dei propri mezzi è una delle basi per la vittoria, continuò per mesi a dire Nereo Rocco ai suoi calciatori di allora, al primo allenamento nell’estate del 1961. “A pato de no eser mona senza saverlo”, sottolineò. Che tradotto dal rocchese suona tipo: a patto di avere chiaro in mente quali sono i nostri pregi e soprattutto i nostri difetti.
Un concetto espresso, decenni dopo, anche da un altro grande protagonista della storia rossonera, Marcel Desailly. In un’intervista alla Gazzetta il francese disse che “dopo i grandi successi con Fabio Capello noi tutti c’eravamo convinti che bastasse essere noi stessi per continuare a vincere, perché sapevamo di essere forti e sapevamo di poter essere i migliori. C’eravamo sopravvalutati. Non avevamo capito che era cambiato qualcosa”.
Ciò che era cambiato è che i punti fermi sul quale i tanti successi si erano fondati, ossia sulla tranquillità della (quasi) perfezione di Franco Baresi e sulla fiducia totale che prima o poi là davanti qualcuno avrebbe segnato avevano iniziato a traballare. E questo non per colpa del nuovo allenatore Óscar Washington Tabárez, ma delle certezze che iniziavano a vacillare. Come quello della impeccabilità della società. Franco Baresi iniziò quell’anno ad avere peso degli anni, i dirigenti sbagliarono qualche mossa di troppo e coloro che si consideravano i migliori, perché i migliori avevano dimostrato di esserlo in Italia e in Europa, iniziarono a crollare.
La squadra di Pioli si trova ora in una situazione simile. L’infortunio di Mike Maignan ha tolto la tranquillità alla difesa di poter contare su uno dei migliori portieri del campionato. L’assenza di Zlatan Ibrahimovic, seppur a mezzo servizio, ha tolto a una squadra ancora alla ricerca di una personalità propria, il perfetto parafulmine, l’uomo capace di sopportare da solo il peso delle sconfitte. Gli errori di valutazione (almeno per il momento) di Paolo Maldini e di Frederic Massara - a partire da Charles de Ketelaere in giù - hanno tolto la patina di infallibilità che i due erano riusciti a crearsi.
C’è nulla di irreparabile in tutto questo. L’importante è solo “no eser mona senza saverlo”.