Il Foglio sportivo
Arvedi, la manna di Cremona e della Cremonese
L'imprenditore, proprietario e presidente onorario del club, non ama la ribalta, ma sa scegliere gli uomini. Così è riuscito a riportare in Serie A la squadra. E se dovesse arrivare la retrocessione non sarà un dramma
Per Cremona e non solo per la Cremonese, Giovanni Arvedi è stato come la manna dal cielo. In città era noto da sempre. All’inizio perché era il genero di Buschini, forse il più grande, certamente il più famoso, costruttore edile cremonese. Poi ci mise quel suo brevetto e quella modernissima acciaieria non distante dalle acque di quel canale navigabile che nei piani dei politici degli anni Sessanta avrebbe dovuto collegare il Po (quindi l’Adriatico) con Rotterdam e il mare del Nord e invece, da allora, è solo palestra di allenamento a cielo aperto per gli atleti olimpici delle Canottieri cremonesi.
Poi, poco alla volta, a partire dagli anni Novanta, mentre il suo modo di fare siderurgia si imponeva nel mondo, Arvedi è diventato una sorta di benefattore cittadino. Sia chiaro, il Cavaliere non si è mai sostituito alle amministrazioni pubbliche e non ha mai covato sogni politici. Ma ha iniziato a intervenire dove le amministrazioni comunali inevitabilmente si arenavano, mettendoci denaro suo per riqualificare strutture che avevano subito l’onta del tempo o costruirne ex novo altre che la città non avrebbe mai potuto altrimenti permettersi.
Prima di arrivare alla Cremonese, pensiamo al Museo del Violino. Grazie alla lungimiranza dei suoi primi cittadini e consigli comunali, Cremona ha da tempo una collezione di strumenti ad arco di enorme rilievo. Sono violini e viole costruire dai maestri liutai più celebri di sempre, Antonio Stradivari, gli Amati, i Guarneri del Gesù. Prima dell’intervento di Arvedi, la collezione era ospitata nelle sale del Palazzo del Comune. Una quindicina di anni fa Arvedi ha preso due piccioni con una sola fava. Ha rimesso a lucido il Palazzo dell’Arte – un greve parallelepipedo di mattoni che da anni era utilizzato giusto per qualche mostra ogni tanto e che gravava con il suo inutilizzo sui conti pubblici della città – e l’ha trasformato un una struttura all’avanguardia nella quale il comune ha trasferito la collezione di strumenti ad arco, inserendola in un percorso di conoscenza del violino che non ha rivali a livello internazionale. La perla è l’Auditorium, che la città ha giustamente pensato di dedicare ad Arvedi. Una sala da 460 posti dove il design è sofisticato e gli arredi sono belli e in materiale pregiato, ma dove anche – e soprattutto – la qualità del suono ha pochi riscontri nel mondo intero. Nel mentre, Arvedi ha completamente riqualificato piazza Marconi, attraverso la quale si accede al Museo del Violino.
Ma alla stessa stregua ha anche rimesso a nuovo la Casa di cura La Pace, dove nel dopoguerra sono nati metà dei cremonesi, trasformandola in una Casa di riposo nella quale quegli stessi cremonesi verosimilmente vi andranno a morire.
Arvedi approda sulla scena nazionale a metà degli anni Ottanta. È suo il denaro – o comunque una parte del denaro – che salva la Rizzoli dopo l’affare P2. Arriverà ad avere il 12 per cento del pacchetto azionario. Ed è allora che il Cavaliere inizia a inserire la sua città nel giro che conta a livello sportivo. Nel Giro d’Italia del 1986 la cronometro che potrebbe decidere la corsa arriva a Cremona – anzi, sotto il Torrazzo, in pieno centro storico, con i cremonesi allineati festanti per applaudire Francesco Moser sul lungo rettilineo che dal ponte sul fiume, attraverso viale Po e corso Vittorio Emanuele II, porta dritto in centro. Tanto per capire di cosa parliamo, era dal 1963 che il Giro non faceva tappa a Cremona.
Arvedi entra nell’orbita della Cremonese nel 2007. La Cremonese arriva da dieci anni di terrore. Dopo l’addio per ragioni di età di Domenico Luzzara, la società ha rischiato di trovarsi in cattive compagnie. La gloria delle stagioni in Serie A e del successo a Wembley sono lontani anni luce. I tempi di Luca Vialli e di Gigi Simoni sono uno sbiadito ricordo. La squadra milita in categorie minori e va già bene così. Ed è a questo punto che sulla scena compare Arvedi il quale, va detto, non ha un vero interesse per il calcio ma, come tutti i cremonesi, ha un rapporto proprio con i colori grigiorossi e, come tanti cremonesi di successo, avverte un impegno personale con la città.
Arvedi non perde tempo e chiama ad allenare la prima squadra uno dei suoi figli più amati. Emiliano Mondonico è stato giocatore e allenatore della Cremonese. Da giocatore vi aprì e chiuse la carriera. Da allenatore la iniziò – salvando la Cremonese alla sua prima stagione, portandola agli spareggi per la Serie A alla seconda, e conquistando la massima categoria alla terza. L’operazione non tardò a funzionare. Con Mondonico in panchina, la città tornò subito a entusiasmarsi per la propria squadra. Il miracolo sembrava a portata di mano: promozione dalla C alla B alla prima stagione della nuova proprietà. Senonché sulla strada della promozione ci si mise una sciagurata partita nella quale alla Cremonese, che giocava in casa, bastava pareggiare. Perse. La città vacillò. Arvedi non si scompose. Da imprenditore, sapeva perfettamente che non sempre la ciambella riesce con il buco. Conquistare la promozione in B alla prima stagione come proprietario – e presidente – sarebbe stato da epopea sportiva, una di quelle cose che entrano di diritto negli annali. Ma anche rimboccarsi le mani dopo una delusione e ricominciare aveva il suo fascino. Quante volte lo aveva fatto nella sua vita lavorativa?
Il purgatorio è stato forse più lungo di quanto non ci si potesse aspettare dopo una partenza così folgorante. Ma nove anni dopo, in un pomeriggio da diluvio universale nel quale la promozione parve a un certo punto dover scappare di nuovo, la Cremonese guidata da Attilio Tesser conquistò la promozione in B. E per la seconda volta in dieci anni, la città fu grata ad Arvedi, che nel frattempo aveva lasciato ad altri la poltrona di presidente e aveva accettato quella di presidente onorario.
La Serie B per Cremona è una sorta di ovatta. Per una squadra che disputò la sua prima stagione in Serie A nel campionato 1929/30 e la seconda nel campionato 1984/85, la Serie B è a tutti gli effetti calcio che conta. Ma soprattutto, da qui si vede la Serie A, che a Cremona è da sempre considerata come una sorta di premio al lavoro di una o più stagioni, ma nulla di più. Eppure, se ai tempi di Luzzara la parola ‘Serie A’ veniva sempre pronunciata a mezza voce, con la proprietà Arvedi la promozione nella massima serie non è mai stata un argomento da non affrontare ad alta voce. Merito certamente dalla programmazione che Arvedi mette in conto nel lavoro di squadra e società U.S. Cremonese così come di qualsiasi altra sua azienda. E merito del fatto che, non essendo un ‘vero’ addetto ai lavori, ma un imprenditore per così dire prestato al calcio (ma forse sarebbe più corretto dire, prestato al servizio della città), di tabù nella Cremonese di Arvedi ce ne sono sempre stati pochi.
Allo stadio lo si vede poco. Giusto per le occasioni che contano e dove proprio non può non esserci. Arvedi è sempre stato e rimane un uomo schivo. Fugge quella ribalta che ha conquistato in una vita di lavoro nella quale, a livello privato, si è sempre concesso molto poco. Nel calcio preferisce delegare. Ma sa scegliere. Eccome. E a Cremona ha portato quell’Ariedo Braida che è stato parte integrante dei successi del Grande Milan ed è stato l’architetto della promozione della Cremonese in Serie A nella scorsa stagione. Adesso la Cremonese sta faticando. Ma a Cremona non se ne fa un dramma. Ai tempi di Luzzara si festeggiavano anche gli spareggi persi. E nulla lascia presagire che ai tempi di Arvedi le cose debbano essere differenti.