Il Foglio sportivo
Roma si è presa la grande bellezza di Milan e Inter
Mourinho e Sarri in un anno hanno ribaltato Milano: 10 punti a 1 negli scontri diretti. A loro modo, i due allenatori hanno interpretato e introiettato le due diverse anime della Capitale. Per Pioli e Inzaghi invece è crisi aperta
Nel girone d’andata che si è concluso martedì sera con il roboante 4-0 della Lazio sul Milan, le due squadre di Roma hanno conquistato 10 punti (a uno) contro le due squadre di Milano: e questo è il “cosa”, ma il “come” conta ancor di più. Il 26 agosto la Lazio ha battuto l’Inter 3-1, dando il via al balletto di spettri attorno alla squadra di Inzaghi e circondando di punti interrogativi la testa del suo allenatore, a cominciare dal sospetto che il Lukaku-bis non fosse una grande idea. L’1 ottobre la Roma ha sbancato San Siro con i gol di Dybala e Smalling, certificazione di una crisi che ha costretto Inzaghi alla mossa forte – fuori il capitano Handanovic, dentro Onana – per voltare pagina. L’8 gennaio, dopo essersi fatta dominare per 85 minuti, la Roma ha ribaltato la stagione e l’umore del Milan con due calci piazzati. Sedici giorni dopo la Lazio ha umiliato sotto ogni punto di vista i cosiddetti campioni d’Italia, mandandoli dallo psicologo per la prima volta nel post-pandemia. Prima e dopo, Roma e Lazio hanno balbettato, hanno mandato segnali contraddittori, dimostrato di non saper reggere la pressione del doppio impegno europeo, ma hanno il merito di esserci sempre state nei turning point del campionato, e adesso se la giocano perlomeno alla pari nella grande marmellata che è diventata la lotta per la Champions, terremotata dall’uscita di scena della Juventus.
Le corrispondenze Roma-Milano sono iniziate in estate, quando Sarri ha ritenuto Acerbi inadatto alla sua fase difensiva e lo ha ceduto volentieri per Romagnoli, fuoriuscito dal Milan dopo aver materialmente alzato il trofeo dello scudetto. Già appesantita dal pacco-Correa spedito da Roma l’estate precedente, l’Inter non ha avuto la forza economica per convincere Dybala a fare l’ultimo chilometro in direzione Milano; così Paulo s’è stufato e ha accettato la corte di Friedkin, diventando così idolo popolare e anche indiscusso leader tecnico come nemmeno a Torino, riconosciuto apertamente anche da Mourinho. L’inno alla Joya ha così ulteriormente incupito Zaniolo, che ha rotto con ambiente e dirigenza e ha flirtato inutilmente con Maldini e Massara. E qui avremmo dovuto fare una considerazione: oggi può anche capitare che chi non era più titolare a Roma lo sarebbe diventato a Milano, e non solo viceversa.
La differenza milanese – di lucidità, di metodo, di approccio al lavoro – sembra scomparsa: ne vediamo le conseguenze nelle espressioni smarrite di Inzaghi e Pioli, nelle loro titubanze dialettiche, nelle teste che si muovono sconsolate in orizzontale, mentre Mourinho e Sarri, entrambi alla seconda stagione, hanno trovato il loro personale modo di dire “Pijamose Roma”. Assecondandone le due diverse anime: fresco sessantenne, José sguazza nel ruolo da incantatore di serpenti ed è talmente dominante dal punto di vista mediatico che può anche permettersi il lusso – come successo a novembre – di silurare in diretta Karsdorp, procurando un danno tecnico ed economico alla rosa, senza che nessuno abbia aperto bocca. Il suo giocatore simbolo è Gianluca Mancini, difensore mediocre nella gestione Fonseca, che Mou ha trasformato in un piccolo Materazzi, odioso per gli avversari ma molto prezioso per il messaggio che trasmette ai compagni e alla partita: è quello che interpreta meglio di tutti una parte classica della commedia dell’arte calcistica del ventunesimo secolo, “il soldato di Mourinho”.
Invece, nonostante i modi e il frasario da Roma papalina, l’approccio alla materia di Sarri è più cerebrale. Non vuole soldati ma preferisce esseri pensanti, fino all’eccesso opposto: il suo dibattito permanente con Luis Alberto è roba da caffè letterario, ma la fioritura intellettuale della Lazio è palese in notti come quella contro il Milan, in cui il calcio puro sgorgava da ogni rubinetto. I rapidi chiari di luna di questa stagione, sormontata dall’ombra della pelata di Spalletti, stanno dunque precocemente offuscando l’allenatore campione in carica e quello che ha vinto tre trofei in un anno e mezzo, entrambi peraltro agli ottavi di Champions. L’anno scorso Pioli e Inzaghi avevano battuto Mourinho e Sarri nove volte su dieci, ma il passato non conta niente. Da entrambe le piazze si levano alte e incontrollate a mezzo social le richieste d'esonero, i #Pioliout, i Simone ribattezzato in “Scemone” con verve umoristica da seconda elementare.
Anche in questo abbandonarsi a una frustrata isterica per una stagione che doveva portare alla seconda stella e invece a Natale aveva già preso l’A1 direzione Napoli, Milano sembra diventata Roma. Oltretutto queste pretese non sono mai accompagnate dall’indicazione di un possibile sostituto, ignorando che allo stato attuale nessuno può portare in Italia Tuchel o Luis Enrique: e protestare senza offrire soluzioni, o peggio ancora prendersela con chi “non caccia i soldi” (come fanno da anni a Napoli, Firenze, Torino sponda granata – come fanno ovunque) è un altro tratto distintivo del declino. Eravamo concentrati sul tramonto di Roma, magari credendo di intuirvi chissà quale banalissima similitudine con l’attualità politica, e ci sta scappando la crisi di Milano. Non solo per prosaici problemi di affitti o costo della vita, ma in quello che nei decenni era sempre stato il porto sicuro della capitale morale: l’impeccabile affidabilità dei suoi piani, la progettualità ottimista che parte dall’ufficio e si propaga in ogni quartiere della città, il taaaac del ragazzo di campagna Pozzetto che trova il buono anche in un tugurio di 12 metri quadri. Se manca questo, viene giù tutto. Invece la capitale politica è una città che ama recitare a soggetto e ha bisogno di condottieri, di leader, se non proprio di eroi: a loro modo, interpretandone e introiettandone le due diverse anime, Mourinho e Sarri si sono presi Roma.