Olive #21
L'equivoco di Riccardo Saponara
A trentuno anni il giocatore ha trovato finalmente alla Fiorentina l'ambiente giusto per poter essere apprezzato per quello che è e non criticato per il giocatore che i più pensavano dovesse essere
Il problema per chi gioca a pallone in quel pezzetto di prato che è terra di mezzo tra gli attaccanti e i centrocampisti, oppure larghi sulle fasce laterali – come è uso moderno – ma con il medesimo piglio di chi dovrebbe muoversi in quella terra di mezzo, è che ci si aspetta, perché così è e così va e non ci si può fare niente, sempre un guizzo, un'invenzione, una giocata che possa generare un uau, un ohhh, che ti obblighi all’applauso.
Riccardo Saponara ha iniziato a dare per davvero calci a un pallone in quella terra di mezzo. Poi, come tanti, si è dovuto allargare, cercare nuovi pezzetti di prato da conquistare e conquistarsi per conquistare chi da lato e da sopra ha sempre sentito il bisogno di farsi incantare e di fischiare e maledire coloro i quali non sanno incantare. Ha iniziato con Alfredo Aglietti a Empoli, ha continuato in Toscana con Maurizio Sarri, prima che l’allenatore ora alla Lazio trovasse la dimensione definitiva del suo gioco che prova spesso, forse troppo, a elevarsi a filosofia hegeliana. E con Sarri, forse grazie anche a Sarri, si è ritrovato a essere quello che non era mai stato e che forse non aveva mai pensato neppure di essere: un giocatore capace di generare quegli uau e quegli ohhh che i tifosi vogliono e necessitano.
È mica semplice, a ventidue anni per di più, passare da Empoli a Milano, lato Milan, con un’etichetta sbagliata, giocare davanti a uno stadio pieno di persone convinte di sapere meglio di te quale tipo di giocatore sei e aspettarsi di essere stupiti e deliziati per il semplice fatto che un giocatore che gioca nella terra di mezzo tra gli attaccanti e i centrocampisti non può permettersi di non stupire e deliziare.
Perché una cosa era chiara, è chiara ancora oggi che è passato un decennio da allora, Riccardo Saponara col pallone ci sa fare, lo sa accarezzare, controllare, calciare come pochi altri, il problema è che non lo fa, non lo ha mai fatto, nel modo nel quale le persone sugli spalti volevano che lo facesse.
Non è e mai è stato un funambolo Riccardo Saponara. E nemmeno un saltimbanco, un incantatore di serpenti. Fosse un circense probabilmente avrebbe fatto il tecnico delle luci, avrebbe con il suo lavoro valorizzato quello altrui. Quello che fa in campo, che ha sempre fatto in campo. Un gregario. Ed è un male che spesso a leggere la parola gregario la prima cosa che viene in mente a molti, i più, è un atleta di modesto talento, abile soltanto ad aiutare il capitano. Non è così. Non lo è mai stato, è ancor più sbagliato in questi anni, periodo nel quale, l’immensa esposizione mediatica dello sport ha fatto capire, nel ciclismo come in quasi tutti gli sport di squadra, che il più forte talentuoso capace determinato si impone solo a patto di avere gente della quale si può fidare ciecamente. E questo anche se ti chiami Remco Evenepoel, Tadej Pogacar o LeBron James.
Riccardo Saponara è uno che ha sempre giocato anche in funzione degli altri, che al colpo d’effetto ha sempre preferito l’utilità corale, alla generazione di uau e uhhh la constatazione che in un campo ci sono altre dieci persone con la tua stessa maglietta (che poi sarebbero nove, il portiere da sempre è vestito meglio) e di solito almeno una è marcata peggio di chi ha il pallone tra i piedi.
È un equivoco, sempre stato un equivoco, Riccardo Saponara. Perché da uno come lui si vorrebbe la presenza scenica, la spavalderia del divo, non certo il sottile e raffinato, almeno nel calcio, animo comunitario, la socialisteggiante disposizione al sacrificio personale per il bene di squadra. A trentuno anni Riccardo Saponara però è finalmente riuscito a divincolarsi dall’obbligo del dover stupire e ha iniziato a essere apprezzato per quello che è, uno che con il pallone ci sa fare ma a suo modo, coi suoi tempi, per altri obbiettivi diversi dall’esaltazione del talento. A Firenze, dopo anni e incessanti peregrinazioni come un Dante qualsiasi, Vincenzo Italiano ha apprezzato finalmente quello che era sfuggito a molti. E se anche la Fiorentina sta andando così così, se sembra costantemente un cantiere che rimanda in continuazione la realizzazione di una splendida cattedrale, Vincenzo Italiano e Riccardo Saponara sanno in cuor loro che prima o poi arriverà il momento di essere soddisfatti per il tempo impiegato, tempo che sembrava perso, ma perso non lo è mai davvero.
Olive è la rubrica di Giovanni Battistuzzi sui (non per forza) protagonisti della Serie A. Nella prima puntata si è parlato di Khvicha Kvaratskhelia (Napoli), nella seconda di Emil Audero (Sampdoria), nella terza di Boulaye Dia (Salernitana), nella quarta di Tommaso Baldanzi (Empoli), nella quinta di Marko Arnautovic (Bologna), nella sesta vi ha invece intrattenuto Gabriele Spangaro con Beto (Udinese), nella settima di Christian Gytkjær (Monza), nell'ottava Armand Laurienté (Sassuolo), nella nona Sergej Milinkovic-Savic (Lazio), nella decima Sandro Tonali (Milan), nell'undicesima Cyriel Dessers (Cremonese), nella dodicesima Tammy Abraham (Roma), nella tredicesima Stefano Sensi (Monza), nella quattordicesima Federico Baschirotto (Lecce), nella quindicesima Moise Kean (Juventus), nella diciasettesima Rasmus Hojlund (Atalanta); nella diciottesima M'Bala Nzola (Siena); nella diciannovesima Federico Dimarco (Inter); nella ventesima Cyril Ngonge (Hellas Verona).